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Se una voce dentro di te continua a ripeterti “non sarai mai in grado di dipingere”, allora dedicati alla pittura con tutto te stesso, e vedrai che quella voce sarà messa a tacere. -Vincent Van Gogh

Inside out – Dentro e fuori

Sono andata a vedere questo film perché molti miei pazienti me lo citavano. È stato interessante vedere come a seconda dei propri vissuti, ogni persona dava al film un significato diverso e veniva colpito da un’emozione specifica.

emozioni

Con i miei pazienti ho utilizzato il film come strumento per far emergere contenuti emotivi non facilmente esplorabili, attraverso la distanza di sicurezza che l’utilizzo del linguaggio comune del film ci ha spontaneamente offerto.

Per caso mi sono imbattuta in un interessante articolo di un mio collega che riguarda il film in oggetto.

ricordo neve

Immaginate, per un momento, di essere in un parco di una piccola cittadina, in autunno, seduti in una panchina mentre osservate con piacere ed interesse l’interazione tra una mamma e un bambino piccolo, di 10 mesi circa. Stanno giocando distesi su di un prato pieno di foglie appena cadute giù da qualche albero. Il bambino ha in mano un pupazzetto di stoffa e lo avvicina al viso della madre, il pupazzetto gli sfugge di mano e la mamma decide di non raccoglierlo, allora il bambino si allunga per prenderlo, ma non ci arriva subito, si forza allungando al massimo le braccia e le dita. Non riuscendoci si spinge in avanti con tutto il corpo per coprire la breve distanza che lo separa dal giocattolo. In quel momento la madre dice “uuuuh! uuuuh!” in un crescendo dello sforzo vocale e respiratorio che va di pari passo con l’accelerazione dello sforzo fisico del bambino. Questa interazione è quella che lo psicoanalista svizzero Daniel Stern ha definito “sintonizzazione degli affetti”. La madre non tenta di imitare lo sforzo del bambino che prova a prendere il pupazzo ma si sintonizza con il suo sforzo e dà voce a quel vissuto. Questo tipo di interazione è esattamente quello che avviene in un lavoro psicoterapeutico. Prima ancora di capire il problema della persona, di interpretare, di aiutare, sostenere e via dicendo, il terapeuta prova a sintonizzarsi con i vissuti interni della persona che chiede aiuto, con le sue emozioni, dandogli voce, letteralmente tirandole fuori.

pupazzo

Spesso noi proviamo delle emozioni e non riusciamo a riconoscerle pienamente o perché particolarmente intense o, al contrario, perché troppo deboli, in questi casi abbiamo bisogno di una persona che ci aiuti a comprendere, insieme, cosa stiamo vivendo.

Inside out racconta il mondo interno di una bambina di 11 anni che si trova nella difficile situazione di dover spostarsi con la propria famiglia in un’altra città, molto distante dai luoghi in cui è nata e cresciuta. Nel cartone viene descritta, in modo molto efficace e veritiero, come vive Riley dal punto di vista emotivo questa situazione di disagio. Molti hanno sostenuto, a ragione, che questo cartone è l’elogio della tristezza, nel senso che è proprio grazie alla tristezza che alla fine Riley riesce ad affrontare e superare il momento di crisi.

A mio avviso però il cartone è anche l’elogio della relazione, Riley riesce ad affrontare la crisi perché si ricorda che in un momento di grande difficoltà dell’infanzia, relativo ad un fallimento sportivo, i suoi genitori erano sintonizzati affettivamente, attraverso l’abbraccio e la consolazione, con lei. E questo le apre anche il ricordo successivo dell’abbraccio dei suoi amici.

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Nella terapia, avviene qualcosa di molto simile. Il terapeuta si sintonizza con il disagio della persona, con le sue emozioni, assorbendole e restituendole attenuate, più morbide, delicate. La mente del terapeuta è aperta verso l’altro non solo attraverso le parole – e in generale attraverso gli aspetti cognitivi della loro comunicazione – ma, prima e soprattutto, verso ciò che passa a livello emotivo, in un dialogo silente che assomiglia molto alla relazione della mamma con il bambino che ho descritto all’inizio. Questo processo lentamente si sposta poi su di un piano più razionale, cognitivo, fino a diventare consapevolezza e quindi conoscenza di sé, dei propri disagi attuali e della propria storia personale. Ogni incontro terapeutico, in genere, dovrebbe muoversi attraverso questa sequenza, prima entrare in contatto con i vissuti emotivi e poi spostarsi, lentamente, verso il livello cognitivo, di maggiore consapevolezza.

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La psicologia che sta dietro il cartone Inside Out ci dice non solo che le emozioni sono importanti e non, come si credeva un tempo, da tenere sotto controllo, pericolosi agenti di disturbo per il pensiero razionale, ma che noi siamo esseri relazionali, entriamo in contatto con l’altro fin dal concepimento, ci connettiamo, per utilizzare un termine moderno, e grazie a queste relazioni possiamo permetterci di esplorare il nostro mondo interno, le nostre fantasie, la nostra storia e immaginare e progettare il nostro futuro.

Quando ci si tiene dentro troppe cose: il finale di una relazione

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Credo che tutti ci siamo trovati, durante la nostra vita, in un rapporto esaurito o in via di esaurimento. Sono quei rapporti in cui nessuna delle parti prospera, dove, anche se c’è ancora dell’affetto genuino, nella relazione è rimasta troppa poca “musica” e rimane soffocata le possibilità di uno scambio appassionato o significativo (a livello emotivo, intellettuale, sessuale).

Le due persone non nutrono più una curiosità di base l’una verso l’altra o un reale interesse per quello che l’altra potrebbe stare pensando o provando. Non ci sono più conversazioni oneste. Ci si tiene dentro troppe cose. I pensieri e le emozioni più intimi non vengono condivisi, ci si accontenta di mandare avanti un rapporto in modo confortevole per entrambi.

Ci sono poi rapporti che una persona è abbastanza contenta di mantenere entro limiti confortevoli e di vivere con un investimento emotivo blando e sicuro, e che l’altra persona desidera invece ardentemente ravvivare e vivere con passione. Può capitare, in questo tipo di situazioni, che inizialmente una delle due persone tragga profitto dalla relazione ma che, in seguito, il fatto di stare con l’altra soffochi la sua forza vitale.

In altri casi, la sensazione di andare semplicemente alla deriva, di “non andare da nessuna parte insieme”, uccide gradualmente il rapporto. Come dice Woody Allen: “Una relazione è come uno squalo. Deve avanzare costantemente o muore.” Spesso, si comincia a vivere al di fuori di essa quando si perde ogni speranza nel fatto che possa esservi una vita al suo interno, o si inizia a dubitare che vi sia mai stata.

Ma come si arriva a questo punto?

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Come già detto in precedenza, probabilmente, troppe espressioni di sofferenza sono rimaste inascoltate, troppe emozioni non comunicate. Esistono però, altri rapporti, che cominciano ad andare alla deriva perché entrambe le parti hanno tacitamente concordato di non esprimere mai disaccordo nei riguardi dell’altro. Nel tentativo di mantenere buona la relazione non si sono mai concesse alcuna espressione di rabbia. Alcuni dicono: “Abbiamo un rapporto fantastico. Non litighiamo mai”, e negano di avere mai avuto pensieri ed impulsi distruttivi nei confronti del partner, poiché gli sembrano troppo pericolosi anche solo per sentirli. Alla fine, la collera repressa può rendere impossibile sia l’amore, sia il sesso e ovviamente l’intimità.

Nell’analisi transazionale si usa l’espressione “raccolta punti” per indicare il modo in cui le persone accumulano tacitamente rancori nei confronti dei loro partner. A livello superficiale si mostrano affabili nei loro riguardi, ma una volta raccolti punti a sufficienza passano alla “cassa”, chiedendo il divorzio, instaurando una relazione extraconiugale o uscendo dalla porta per non tornare più.

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Quando due persone cercano di ingannare se stesse, aggrappandosi al pensiero che, a parte poche trascurabili noie, entrambe nutrono solo un sentimento d’amore l’una verso l’altra, rivelano una mancanza di volontà o comunque un’incapacità di comprendere la condizione umana.

La realtà, naturalmente, è che dove c’è un amore forte, le inevitabili sofferenze che ci si ritroverà a vivere saranno altrettanto forti, semplicemente in virtù dell’enorme importanza che riveste per entrambe le parti l’altra persona. Se questo dolore non viene espresso e affrontato, può trasformarsi in un muro d’odio.

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E infine ci sono quei rapporti che per quanti sforzi facciamo, per quanto possiamo confrontarci, sono destinati ad esaurirsi perché “semplicemente” l’amore è finito e non resta che accettare la realtà per quel che è, cioè, che la fine è soltanto l’inizio di altro.

Andare dallo Psicologo

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Oggi giorno andare dallo psicologo non è più percepito negativamente come una volta. In passato il termine “strizzacervelli” e l’idea che “dallo psicologo ci vanno i matti” erano dovuti all’erroneo accostamento con la vecchia psichiatria.

Andare dallo psicologo non vuol dire essere “diversi” o “matti”.

Andare dallo psicologo significa prendersi cura della propria salute psicologica, così come ci occupiamo di quella fisica, migliorando il nostro benessere psicologico e sociale.

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Lo psicologo è un professionista che si occupa di prevenzione, diagnosi, attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno; si rivolge alle persone, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità.

Si può rivolgere allo psicologo chiunque avverta la necessità di una consulenza specialistica per favorire una crescita interiore personale, per una crisi temporanea, per delle esigenze di orientamento, per raggiungere una migliore consapevolezza di sé, degli altri e del proprio contesto familiare, sociale, lavorativo o scolastico.

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Alcuni esempi, tra i tanti possibili, per richiedere una consulenza:

· l’individuo, la coppia o la famiglia che deve affrontare cambiamenti legati al ciclo di vita;

· il genitore che desidera migliorare la relazione con i figli;

· le scuole e le aziende per migliorare le dinamiche relazionali o per affrontare problematiche organizzative;

· lo sportivo per gestire lo stress o incrementare la motivazione.

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Una consulenza psicologica facilita la comprensione del problema, aiuta ad individuare le risorse giuste e a trovare soluzioni adatte.

Rivolgersi ad uno psicologo sin dai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l’aggravamento di una situazione.

E’ importante rivolgersi ad un professionista perché la nostra salute, così come sancisce la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “non è soltanto assenza di malattia o di infermità ma uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale” che dobbiamo imparare a tutelare.

Resilienza: rialzarsi, più forti di prima.

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La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo.

“ciò che non lo uccide, lo rende più forte” (Friedrich Nietzsche)

Resilienza nella storia

Fin dalle epoche più remote, gli esseri umani si sono distinti per la capacità di sopravvivere a disastri naturali, guerre, e a ogni sorta di carestia o malattia. Ciò è stato possibile perchè l’uomo è “programmato” per resistere alle sventure, superarle, e convivere quotidianamente con lo stress, al punto che si potrebbe dire che l’abilità di combattere e rialzarsi più forti di prima è la regola nel mondo umano.

storia

La necessità di combattere ha la sua ragion d’essere nell’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi: Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?

Domande da cui non è possibile sfuggire: solo cercando una risposta chiarificatrice, un senso, seppur a volte mai definitivamente compiuto, è possibile infatti ridefinire la propria sofferenza, la quale, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonchè per le sofferenze altrui.

Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di realizzazione superiore, al pari della condizione del cigno che si è sviluppato a partire dal brutto anatroccolo della nota favola di Andersen (Cyrulnik, 2002).

Le difficoltà quindi come opportunità, come sfida, che mobilita le proprie risorse, sia interne che esterne, una sfida dalla quale non ci si può esimere, in nome del raggiungimento di un equilibrio più funzionale.

Affrontare le inevitabili calamità della vita mette in moto un’abilità nota come resilienza, termine ripreso dall’ambito ingegneristico per indicare la capacità di un materiale di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi. La sua azione può essere paragonata a quella del nostro sistema immunitario chiamato a proteggerci dalle aggressioni esterne.

Definizione di Resilienza

La resilienza è in altri termini la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo.

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Essere resilienti non significa infatti solo sapersi opporre alle pressioni dell’ambiente, ma implica una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, nonostante le crisi, e permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un percorso di vita. Si tratta di un dono inestimabile, che permette di superare le difficoltà, ma che non rende invincibili, e non è neppure presente sempre e comunque: possono infatti verificarsi momenti in cui le situazioni sono troppo pesanti da sopportare, generando un’instabilità più o meno duratura e pervasiva. Non esistono i Superman, e non si è dei supereroi per il solo fatto di essere stati resilienti in passato, anche se è indubbio che la forza delle battaglie superate predispone l’individuo a lottare con maggior consapevolezza (dei rischi assunti e della probabilità di riuscita).

Gli individui resilienti hanno, insomma, trovato in se stessi, nelle relazioni umane, e nei contesti di vita, quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti fattori di protezione contrapposti ai fattori di rischio, che invece diminuiscono la capacità di sopportare il dolore.

Fattori di rischio per la Resilienza

Tra i fattori di rischio che espongono a una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti, diminuendo la resilienza, secondo Werner e Smith (1982) troviamo i fattori emozionali (abuso, bassa autostima, scarso controllo emozionale), interpersonali (rifiuto dei pari, isolamento, chiusura), familiari (bassa classe sociale, conflitti, scarso legame con i genitori, disturbi nella comunicazione), di sviluppo (ritardo mentale, disabilità nella lettura, deficit attentivi, incompetenza sociale).

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Fattori protettivi per la Resilienza

Tra i fattori protettivi, invece, gli autori ne individuano di individuali e familiari. Tra i primi, l’essere primogenito, un buon temperamento, la sensibilità, l’autonomia, unita alla competenza sociale e comunicativa, l’autocontrollo, e la consapevolezza e fiducia che le proprie conquiste dipendono dai propri sforzi (locus of control interno). A questi si aggiunge una risorsa di estrema importanza: il comportamenti seduttivo, che consente di essere benvoluti e di riconoscere e accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.

I fattori protettivi familiari comprendono l’elevata attenzione riservata al bambino nel primo anno di vita, la qualità delle relazioni tra genitori, il sostegno alla madre nell’accudimento del piccolo, la coerenza nelle regole, il supporto di parenti e vicini di casa, o comunque di figure di riferimento affettivo.

Esplorando i fattori protettivi, è possibile individuare cinque componenti che contribuiscono a sviluppare la resilienza (Cantoni, 2014).

I 5 componenti che sviluppano la Resilienza

1. L’Ottimismo. La disposizione a cogliere il lato buono delle cose, è un’importantissima caratteristica umana che promuove il benessere individuale e preserva dal disagio e dalla sofferenza fisica e psicologica. Chi è ottimista tende a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi (Seligman, 1996).

2. L’autostima si accoppia all’ottimismo. Avere una bassa considerazione di sé ed essere molto autocritici, infatti, conduce a una minore tolleranza delle critiche altrui, cui si associa una quota maggiore di dolore e amarezza, aumentando la possibilità di sviluppare sintomi depressivi.

3. La Robustezza psicologica (Hardiness). Essa è a sua volta scomponibile in tre sotto-componenti, il controllo (la convinzione di essere in grado di controllare l’ambiente circostante, mobilitando quelle risorse utili per affrontare le situazioni), l’impegno (con la chiara definizione di obiettivi significativi che facilita una visione positiva di ciò che si affronta) e la sfida, che include la visione dei cambiamenti come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze.

4. Le emozioni positive, ovvero il focalizzarsi su quello che si possiede invece che su ciò che ci manca.

5. Il supporto sociale, definito come l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati. E’ importante sottolineare come la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poichè mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare è liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un racconto tutto interiore, penoso e solitario (che può sfociare in forme di comunicazione delirante) alla condivisione partecipata dell’accaduto.

In definitiva, ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico. Parlare in termini di resilienza vuol dire modificare lo sguardo con cui si leggono i fenomeni e superare un processo di analisi lineare, di causa ed effetto, per cui non è più corretto ragionare dicendo per esempio: “E’ stato gravemente ferito, quindi è spacciato per tutta la vita!”

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Il profilo della Resilienza

Se volessimo tracciare un profilo della persona resiliente, questa dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

Sopporta i dolori senza lamentarsi e regge le difficoltà senza disperarsi;

Ha il coraggio di intraprendere con consapevolezza una via che sa essere tortuosa o, comunque, non la più semplice;

Ama la vita per quello che è nel presente, e coltiva una propria spiritualità e virtù che moderano i timori di morte;

Ricorda di essere esposta al pericolo in quanto mortale, e nel contempo affronta ciò che lo ostacola per cercare di superarlo con saggia audacia.

Comunicazione nella coppia, cosa non funziona

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1. L’illusione di non comunicare.

La comunicazione non ha un suo opposto, o per meglio dire è impossibile non comunicare. A volte si è troppo oppressi dalla circostanza per trovare la forza di esprimere verbalmente il proprio punto di vista al partner. In questo caso si fugge il dialogo. L’errore è illudersi, in questo modo, di escludere l’altro dal nostro problema, come se il continuo scambio di informazioni peculiare della vita di coppia potesse essere momentaneamente in pausa per poi essere ripreso da dove si era fermato. Non è così. Il nostro ritrarsi comunica all’altro un malessere, poi lui lo elabora in autonomia e se non viene affrontato rischia di venire frainteso. Possiamo posticipare una discussione, se in quel momento non ci sentiamo in grado di sostenerla, ma è molto importante parlarne subito dopo per ripristinare la chiarezza.

2. Incongruenza tra i canali comunicativi.

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A volte la tentazione di dissimulare un’emozione è inevitabile. Tornando un istante all’esempio della minestra, quale messaggio diamo alla nostra compagna dicendo che ciò che ci ha cucinato ci piace tantissimo, ma facendo, mentre lo diciamo, una smorfia disgustata? L’abbiamo detto, questo caso è banale. Però la stessa cosa succede spesso in altri contesti della comunicazione di coppia. Quando cerchiamo di dissimulare il nostro disappunto veniamo quasi sempre traditi dagli aspetti non verbali della comunicazione, il risultato è un messaggio ambiguo che non viene compreso dall’altro. Noi crediamo di essercela cavata con le parole, lui si sta chiedendo il perché di quel tono. Abbiamo detto che dissimulare può essere inevitabile, però dopo è utile ritornare sul discorso, chiarire il proprio punto di vista e mettere un punto al rimuginare del vostro partner.

3. Ironia e sarcasmo.

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Un modo specifico per dissimulare è utilizzare l’ironia e il sarcasmo per esprimere il disappunto, cioè criticare l’altro scherzando. Questa è una modalità di comunicazione molto aggressiva perché non permette al vostro partner di rispondere a tono ma consente solo due scenari. Il primo è la risposta a sua volta ironica o sarcastica, giocata sullo scherzo e non sul contenuto della critica. Entrambi fuggite l’argomento e come abbiamo visto, evitare il confronto porta al rimuginio. L’altro scenario è il tentativo di riportare il discorso sui binari dell’argomentazione. Aver usato l’ironia in questo caso vi protegge perché qualsiasi cosa lui dica potete ribattere che stavate scherzando, scatenando in lui un malsano senso di impotenza.

4. Generalizzare.

Lo stato emotivo influisce il recupero dei ricordi: quando siamo allegri pensiamo più facilmente a bei momenti, quando siamo tristi ci vengono alla mente solo cose negative. Se siamo arrabbiati con il nostro partner sarà facilissimo sciorinare una lista di occasioni in cui lui ci ha deluso per il motivo oggetto di discordia in quel dato momento. Gli diremo probabilmente che lui è così. La verità è che lui non è solo così, si è comportato così in alcune situazioni, ma nell’istante in cui discutete è irrilevante. Non serve a niente accusare qualcuno di essere una persona di un certo tipo, l’oggetto della discussione dev’essere il suo comportamento nella singola circostanza.

5. Squalificazione della comunicazione.

Uno dei problemi più frequenti della comunicazione di coppia è il tentativo di squalificare la comunicazione, invalidando la propria comunicazione o quella dell’altro. Contraddirsi, cambiare argomento o sfiorarlo, dire frasi incoerenti o incomplete, ricorrere a uno stile oscuro o utilizzare manierismi, fraintendere, dare una propria interpretazione letterale alle metafore o un’interpretazione metaforica di un significato letterale. Non dire nulla dicendo qualcosa ci fa apparire disponibili al dialogo, ma così facendo lo stiamo solo rifiutando.

 

Che cos’è la Psicoterapia ?

DEFINIZIONE DI PSICOTERAPIA TRATTA DA G. JERVIS

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Definizione proposta da Giovanni Jervis (1975).

La psicoterapia è qualsiasi forma di aiuto e di cura attraverso il rapporto interpersonale. In senso generale, è psicoterapia quanto di utile può derivare al soggetto, per la soluzione dei propri problemi e la scomparsa dei propri disturbi, dall’incontro con un’altra persona o con persone, e dallo scambio diretto di parole e di messaggi non verbali. In modo più preciso e limitato, si può parlare di psicoterapia quando un aiuto del genere venga dato in modo intenzionale da parte di una o più persone che abbiano la capacità di farlo.”

La psicoterapia è una forma di aiuto che utilizza metodi psicologici: la parola, la relazione, l’ascolto professionale, le diverse tecniche psicoterapeutiche. Consiste nella decisione di prendersi cura di se stessi attraverso l’aiuto di un esperto in problematiche psicologiche che assiste e sostiene tale decisione.
In questo senso, l’incontro con la psicoterapeuta rappresenta la possibilità per l’individuo di attingere a risorse personali che il proprio contesto sociale, per motivi diversi, non riesce a mobilitare. La psicoterapeuta diventa allora un mediatore esterno che sostiene il “progetto di vita e di cura” della persona che a lei si rivolge.

OBIETTIVO DELLA PSICOTERAPIA

Seguendo il modello psicodinamico – relazionale possiamo dire che l’obiettivo di una psicoterapia è il miglioramento della qualità delle proprie relazioni.

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Nella pratica clinica attuale è più facile che una persona richiesta una psicoterapia lamentandosi per la qualità delle sue relazioni piuttosto che per una precisa sintomatologia. Il modello da me utilizzato trae origine dalla psicoanalisi classica ma integra al suo interno concetti ed aspetti appartenenti a diverse teorie e modelli psicologici, e pone l’accento sugli aspetti interpersonali e relazionali dell’individuo piuttosto che esclusivamente sulle pulsioni.

ELEMENTI COMUNI DI UNA PSICOTERAPIA

Al di là delle tecniche specifiche utilizzate da terapisti di diversa formazione, possiamo isolare alcuni elementi comuni presenti in ogni forma di terapia, essi sono:

  1. La richiesta di intervento;

  2. La sintomatologia;

  3. Il rapporto interpersonale.

Il primo aspetto riguarda la possibilità che una persona riconosca un problema o una difficoltà e decida di chiedere aiuto.

Il secondo aspetto, la sintomatologia, può essere costituita da elementi molto ben delineati oppure da situazioni generalizzate. Possiamo osservare che su di essa si punta l’attenzione del paziente in quanto costituisce una sorta di limitazione alla sua vita.

Il terzo aspetto è costituito dal fatto che una psicoterapia si svolge sempre sulla base di una relazione umana. Il processo di ristruttutazione terapeutica in una persona che avverte un forte disagio, avviene utilizzando proprio il rapporto che si stabilisce con il terapeuta.

PERCHÈ INTRAPRENDERE UN PSICOTERAPIA?

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L’obiettivo primario di un percorso di terapia è quello di raggiungere un cambiamento.
Tale cambiamento si concretizza nel raggiungimento di uno stato maggiore di benessere personale, non inteso necessariamente come risoluzione totale e definitiva dei problemi presentati all’inizio, ma come acquisizione e attivazione di risorse, di strumenti necessari per affrontare problematiche passate, presenti o future.

Non si tratta di una trasformazione superficiale, limitata al semplice apprendimento di nuove informazioni o di nuove “tecniche”, ma di una trasformazione sostanziale, a livello sia del pensiero che dell’azione.

L’obiettivo di ogni percorso terapeutico è quello di rendere il paziente in grado di attuare una profonda riflessione su di sè, attraverso la rinnovata capacità di mettersi in discussione al fine di raggiungere una più completa e complessa consapevolezza di sè.

E’ proprio attraverso la relazione terapeutica che si arriva ad essere in grado di interrogarsi e mettersi in gioco in modo nuovo.

Attraverso l’esperienza di fiducia che si viene a creare con il proprio terapeuta, il paziente arriva a costruirsi un’esperienza di relazione e con essa una diversa modalità di rapportarsi agli altri, favorendo il senso di autonomia e l’attivazione di nuove risorse anche in altri contesti ed in diverse situazioni.

Infine, un altro importante cambiamento che si può ottenere dal percorso terapeutico è quello di cambiare atteggiamento nei confronti del concetto di verità: non si è più alla ricerca di certezze assolute, che durino nel tempo, ma si impara ad interrogarsi, a dubitare e a vivere nel dubbio, mettendosi in discussione, accettando i diversi punti di vista, considerando tutto ciò come una risorsa, un’occasione di crescita personale e non più un limite.

Si fa propria una visione positiva della vita e l’idea che esistano diversi modi di vedere il mondo “reale”, secondo una logica in cui è ammessa l’esistenza di diversi mondi possibili.

Dipendenza dalla tecnologia

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Secondo una nuova ricerca dell’Università della Virginia e Harvard, molte persone farebbero qualunque cosa pur di non rimanere sole con i propri pensieri. E se il termine “qualunque cosa” vi sembra esagerato sappiate che c’è chi è arrivato a preferire di auto-somministrarsi scosse elettriche piuttosto che fare i conti con sé stesso.

I ricercatori hanno condotto una serie di studi che hanno coinvolto quasi 300 uomini e donne, di età compresa 18 e 77 anni. I partecipanti sono stati invitati a sedersi da soli in una stanza per 15 minuti, lontano da telefoni cellulari e altre distrazioni, con la sola compagnia dei propri pensieri.

Come hanno reagito al tu per tu con sé stessi? In media, la maggior parte dei soggetti ha dichiarato di non amare affatto non avere nulla da fare. E questo effetto è stato trovato in tutte le età.

Ma fino a che punto la gente desidera evitare di passare del tempo senza occuparsi di qualcosa? Per scoprirlo, i ricercatori hanno dato la possibilità a 42 uomini e donne di “intrattenersi” per 15 minuti auto-somministrandosi delle scosse elettriche: abbastanza sorprendentemente, il 67 per cento degli uomini e il 25 per cento delle donne ha deciso di farlo!

Cosa spiega questa decisione?

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L’ipotesi dei ricercatori è che la mente umana si è evoluta nella relazione con il mondo esterno, nella necessità di essere vigile per affrontare i pericoli esterni e cogliere opportunità; questo impegno nei confronti dell’esterno è prioritario, anche a prezzo del dolore fisico.

Inoltre la nostra crescente dipendenza dalla tecnologia allontana la noia, ma potrebbe esacerbare l’effetto del nostro impegno nei confronti dell’esterno. “Cerchiamo la tecnologia perché intrattenerci solo con i nostri pensieri ci è difficile, e la tecnologia è un’alternativa facilmente disponibile”, sostengono i ricercatori.

Questo però causa l’instaurarsi di un circolo vizioso per il quale, sempre meno abituati a stare soli con i nostri pensieri, finiamo per trovarlo sempre più difficile e meno piacevole rispetto alla stimolazione proveniente dall’esterno e quindi ad evitarlo con ogni mezzo a disposizione.

In futuro i ricercatori vogliono scoprire se aiutare le persone a familiarizzare con i propri pensieri, per esempio con un vero e proprio training di formazione, possa essere utile affinchè imparino ad usarlo come meccanismo di coping, o se possa loro servire ad aumentare il benessere a lungo termine e la produttività.

 

Piacere per forza rende finti

Chi si preoccupa sempre di piacere agli altri teme di venire abbandonato: atteggiamento controproducente

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Fanno tutto quello che gli si chiede, dicono quello che si spera che dicano, sono sempre d’accordo con chi hanno di fronte e, in ogni caso, mai apertamente in disaccordo. Sembra che a loro vada bene tutto, che possano sopportare ogni cosa e che addirittura gli piaccia farlo. Sono arrabbiati? Sorridono. Sono delusi? Si mostrano soddisfatti. Sono occupatissimi? Si rendono disponibili a ogni richiesta. Sono i “compiacenti”, cioè persone che vivono dominate dalla paura di scontentare chiunque abbiano davanti. E che, con questo modo di fare, portano le relazioni – amicali, sentimentali e lavorative – verso un inevitabile fallimento. Un fallimento di cui non si spiegano le ragioni e che fanno una gran fatica ad accettare, perché convinte che la strategia del “non deludere” sia la migliore per far andare bene le cose. Siamo in molti – quasi tutti a dire il vero – a desiderare di piacere agli altri, al punto da rischiare a volte di snaturare ciò che siamo.

Paura dell’abbandono

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Chi più chi meno, tutti abbiamo imparato fin da piccoli che all’occorrenza si può indossare la maschera di “colui che non delude” per avere dei vantaggi. Chi non riesce mai a togliersela però ha una tale paura di deludere e di venire abbandonato che tutta la sua vita viene condizionata. Forse il comportamento dei genitori, e poi le prime esperienze di incontro con il mondo esterno, lo hanno convinto che, se non si contraddicono gli altri, si viene accettati o, quantomeno, non si viene puniti: si ottiene la loro clemenza. Fin da quando era piccolo, quindi, egli cerca di affermarsi nella realtà tentando di “tenere buono” l’interlocutore, temendo le sue reazioni: potrebbe non amarlo più, non accettarlo, non volerlo, ma anche “distruggerlo” con brutte parole e musi lunghi.

Una strategia fallimentare

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Chi vive così sacrifica la qualità della propria vita in cambio della sopravvivenza emotiva. Eppure può fare qualcosa di concreto per uscire da questa penosa situazione. In fondo si tratta di togliere una maschera che, a ben vedere, non ha mai dato risultati positivi. I partner, dopo averlo sfruttato ben bene, lo hanno accusato di falsità, di doppiogiochismo e – cosa paradossale, in apparenza, per chi si è adattato così tanto – di egoismo; gli amici gli si sono rivoltati contro o si sono sentiti raggirati; i colleghi lo vessano dopo averlo spremuto come un limone. Invece di parlare di ingratitudine degli altri occorre focalizzarsi sul fatto che, alla fine, tutti scoprono, o comunque percepiscono, la sua finzione. E non gliela perdonano. Quando oggi sente dire: “Potevi dirlo che non eri d’accordo!”, ebbene è vero: poteva dirlo. O, meglio: doveva.

Avrebbe dovuto affermare se stesso e sopportare la probabile reazione negativa dell’altro, visto che, alla fine, essa è comunque arrivata, ed è ben peggiore di quella che poteva essere all’inizio.

La finzione della bontà

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Chi fa di tutto per compiacere gli altri è convinto di essere una persona buona, molto buona, visto che si adatta ai loro bisogni e ciò gli fa pensare che, con tutta questa bontà, gli altri avranno pietà di lui e riconosceranno il suo “grande cuore”. Ma, a parte il fatto che gli altri non sanno niente dei sacrifici che ha fatto, egli, in realtà, non ha mai avuto il coraggio di immettere nelle relazioni la propria verità, le proprie vere idee, i propri desideri ed esigenze. E quindi non ha mai dato loro delle reali chance di riuscita. È su questo punto che occorre riflettere con molta attenzione. Se per motivi legati alla propria storia personale non si fornisce all’altro una conoscenza reale di sé, tutto sarà inquinato fin dall’inizio e ciò che si temeva – il “disastro” e l’abbandono – si realizzerà puntualmente. Se invece ci si farà conoscere per come si è, quel che accadrà sarà davvero quel che deve accadere. E la vita, per quanto impegnativa, potrà essere reale e appagante.

Smetti di adattarti alle scarpe strette o le dovrai portare sempre.

Riconosci le tue esigenze

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Più lo compiaci, più l’altro si abitua a vederti così: disponibile, malleabile e senza idee ed esigenze particolari. E gli va benissimo, quindi non accetterà cambiamenti. È a te però che non va bene. Perciò impegnati, fin dall’inizio di un rapporto, a dire ciò che pensi e a esprimere ciò di cui hai voglia o bisogno. Non accadrà niente di terribile.

Conosci meglio te stesso

A volte, a forza di adattarsi alle esigenze degli altri, si finisce per non sapere più quali sono le proprie. Orientati di più su di te, sulla tua interiorità. Dai più ascolto alle tue emozioni, ai tuoi pensieri. Essere più in contatto con essi ti aiuterà ad avere la risposta pronta per esprimerti al momento opportuno.

Inutile rinfacciare

Se ti adatti a tutto, anche senza che ti venga richiesto, lanci il messaggio che per te non c’è problema. Perciò è assurdo poi, quando ti senti disconosciuto, fare un elenco dei sacrifici fatti e degli sforzi profusi. Ciò farà apparire la tua bontà come interessata e, quindi, manipolatoria. Piuttosto seleziona meglio a cosa adattarti e a che cosa no, così da non sentirti in credito con tutti.

Non insegnate ai bambini

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Un bambino risponde «grazie» perché ha sentito che è il tuo modo di replicare a una gentilezza, non perché gli insegni a dirlo.

Un bambino si muove sicuro nello spazio quando è consapevole che tu non lo trattieni, ma che sei lì nel caso lui abbia bisogno di te.

Un bambino quando si fa male piange molto di più se percepisce la tua paura.

Un bambino è un essere pensante, pieno di dignità, di orgoglio, di desiderio di autonomia, non sostituirti a lui, ricorda che la sua implicita richiesta è «aiutami a fare da solo».

Quando un bambino cade correndo e tu gli avevi appena detto di muoversi piano su quel terreno scivoloso, ha comunque bisogno di essere abbracciato e rassicurato; punirlo è un gesto crudele, purtroppo sono molte le madri che infieriscono in quei momenti. Avrai modo più tardi di spiegargli l’importanza del darti ascolto, soprattutto in situazioni che possono diventare pericolose. Lui capirà.

Un bambino non apre un libro perché riceve un’imposizione (quello è il modo più efficace per fargli detestare la letteratura), ma perché è spinto dalla curiosità di capire cosa ci sia di tanto meraviglioso nell’oggetto che voi tenete sempre in mano con quell’aria soddisfatta.

Un bambino crede nelle fate se ci credi anche tu.

Un bambino ha fiducia nell’amore quando cresce in un esempio di amore, anche se la coppia con cui vive non è quella dei suoi genitori. L’ipocrisia dello stare insieme per i figli alleva esseri umani terrorizzati dai sentimenti.

«Non sono nervosa, sei tu che mi rendi così» è una frase da non dire mai.

Un bambino sempre attivo è nella maggior parte dei casi un bambino pieno di energia che deve trovare uno sfogo, non è un paziente da curare con dei farmaci; provate a portarlo il più possibile nella natura.

Un bambino troppo pulito non è un bambino felice. La terra, il fango, la sabbia, le pozzanghere, gli animali, la neve, sono tutti elementi con cui lui vuole e deve entrare in contatto.

Un bambino che si veste da solo abbinando il rosso, l’azzurro e il giallo, non è malvestito ma è un bambino che sceglie secondo i propri gusti.

Un bambino pone sempre tante domande, ricorda che le tue parole sono importanti; meglio un «questo non lo so» se davvero non sai rispondere; quando ti arrampichi sugli specchi lui lo capisce e ti trova anche un po’ ridicola.

Inutile indossare un sorriso sul volto per celare la malinconia, il bambino percepisce il dolore, lo legge, attraverso la sua lente sensibile, nella luce velata dei tuoi occhi. Quando gli arrivano segnali contrastanti, resta confuso, spaventato, spiegagli perché sei triste, lui è dalla tua parte.

Un bambino merita sempre la verità, anche quando è difficile, vale la pena trovare il modo giusto per raccontare con delicatezza quello che accade utilizzando un linguaggio che lui possa comprendere.

Quando la vita è complicata, il bambino lo percepisce, e ha un gran bisogno di sentirsi dire che non è colpa sua.

Il bambino adora la confidenza, ma vuole una madre non un’amica.

Un bambino è il più potente miracolo che possiamo ricevere in dono, onoriamolo con cura.

(Giorgio Gaber “Non insegnate ai bambini”)

Facilitare il cambiamento: 10 strategie

1 strategia – Questioni di consapevolezza: il cambiamento è una costante della vita

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La prima cosa da conoscere e da considerare è che il cambiamento è una costante della vita. Fa parte del DNA di ogni uomo e della storia del mondo. Pensiamo alle cellule del nostro corpo, che nascono e muoiono ciclicamente per permetterci di sopravvivere; ai nostri bisogni e obiettivi, che si modificano in continuazione lungo le diverse fasi del ciclo di vita, dall’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta, alla vecchiaia; all’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, ai prodotti della terra prima acerbi poi maturi; alle rivoluzioni e alle grandi scoperte e invenzioni, che hanno punteggiato la storia e hanno permesso all’uomo di evolversi, aprirsi nuovi orizzonti, aumentare il benessere e la qualità della vita. Tutto intorno e dentro di noi muta e si evolve, inesorabilmente.

2 strategia – Sviluppa la flessibilità: “l’acqua vince su tutto perché si adatta a tutto”

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Se il cambiamento è presenza costante della vita, occorre acquisire confidenza e imparare ad adattarvisi, visto che esso si verificherà comunque. Alcune volte il cambiamento sarà imposto e nulla potremo fare per resistervi: in questi casi dovremo essere capaci di cavalcarlo e restare flessibili e morbidi. In altri casi, invece, dovremo essere noi per primi a prendere l’iniziativa e a «fare accadere» il cambiamento o almeno a metterci nella posizione per favorirlo, perché è solo abitando situazioni differenti che possiamo aprire porte su nuovi orizzonti di crescita. Insomma, chi sa come cambiare e quando adattarsi al cambiamento ha numerosi vantaggi che non possiede chi fatica ad adeguarsi alle situazioni che la vita ci obbliga ad affrontare. In questo senso, può essere utile tenere a mente le parole di Lao Tse, filosofo cinese del V secolo; “l’acqua vince su tutto perché si adatta a tutto”.

3 strategia – Esci dalla zona di comfort… e prova a cambiare

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C’è da dire che molte persone sono terribilmente spaventate dal cambiamento. La maggior parte di noi infatti ha la tendenza a rimanere entro i confini della cosiddetta “zona di comfort”, ossia tutte quelle routine e quei meccanismi conosciuti e ormai familiari su cui esercitiamo un controllo. Tutto ciò che è al di fuori di questa zona, e che dunque implica la messa in discussione di abitudine consolidate, viene avvertito come pericoloso perché ignoto, forse rischioso o forse no, ma comunque ancora tutto da sperimentare. Eppure, per evolvere, realizzare i nostri bisogni più autentici e creare valore in quello che facciamo occorre proprio accettare di uscire dalla nostra zona di comfort. Ciò può essere fatto a cominciare dalle piccole cose, inserendo piccole deviazioni nelle nostre routine: cambiando il percorso mentre andiamo al lavoro o assaggiando nuovi cibi rispetto a quelli che mangiamo abitualmente. Un altro fatto importante è che quando avviene un cambiamento nella nostra vita, ci affrettiamo a etichettare la nuova situazione come ‘buona’ o ‘cattiva’, ‘una fortuna’ o ‘una sfortuna’. Ad esempio, potremmo giudicare un cambiamento sul lavoro – come l’arrivo di un nuovo superiore al posto di quello precedente – come qualcosa di negativo, timorosi delle modifiche che ciò potrà portare alla nostra condizione. Così facendo, anticipiamo negativamente gli eventi e sperimentiamo emozioni di ansia e apprensione quando, a ben vedere, non è possibile conoscere a priori le conseguenze di un cambiamento. Anzi, quante volte abbiamo giudicato come catastrofico qualcosa che poi si è rivelato un’occasione di crescita?

4 strategia – Per cambiare gli altri, cambia te stesso

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Lungo la strada che porta al cambiamento, possiamo imbatterci in “alibi”, cioè scuse che inventiamo per rimanere ancorati alle nostre abitudini, magari scomode e disfunzionali, ma rassicuranti perché conosciute. Tra i vari alibi, il più frequente è sicuramente quello secondo cui sono gli altri a doversi modificare al nostro posto. Ad esempio, in una coppia che litiga spesso per lo stesso motivo, poniamo la gestione della casa, uno dei due potrebbe continuare a lamentarsi dell’atteggiamento del partner, aspettandosi che sia l’altro a modificarsi. A ben vedere, però, il modo più veloce ed efficace per modificare i comportamenti degli altri è lavorare su se stessi; questo perché in ogni sistema, se si modifica un elemento interno, anche gli altri ne vengono influenzati in quanto irrimediabilmente interconnessi. Ecco perché, nell’esempio precedente, è fondamentale non intestardirsi per modificare chi ci è vicino, ma provare noi per primi a modificare alcuni nostri atteggiamenti e vedere cosa succede.

5 strategia – Come cambiare.. in 5 minuti

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Quanto è ripida la strada verso il cambiamento? Quando cerchiamo di percorrerla, ci pare sempre lunga e difficile, e questo può condurci ad inventare scuse e giustificazioni per procrastinare il da farsi. Ad esempio, se il cambiamento che vogliamo generare riguarda il pulire a fondo la casa, possiamo farci scoraggiare dalla mole di lavoro che ci aspetta: lavare i piatti, mettere in ordine la scrivania, pulire il bagno e tutte le altre stanze. Sembra tutto così lungo e difficoltoso che possiamo rischiare di abbandonare l’intento. Cosa fare allora in questi casi? Inizio con svelarti una cosa, e cioè che, all’interno dei processi di cambiamento, la cosa più difficile è compiere il primo passo. Dunque ti segnalo una strategia chiamata “minimizzare il cambiamento”. In cosa consiste? Nell’esempio della pulizia della casa, posso pensare di impostare un timer da cucina e di darmi da fare per la durata di 5 minuti, al termine dei quali potrò anche smettere. Ora è più semplice alzarsi e compiere il primo passo! Se inizio a pulire la scrivania, mi rendo conto che non è poi così traumatico: ritrovo vecchi documenti dimenticati, lo spazio è pulito e ordinato e questo mi gratifica. Quando suonerà la sveglia sarò più facilitato a continuare a pulire anche il resto della casa, ma, se dovesse andare male e decidessi di fermarmi con le pulizie, al peggio avrò la scrivania in ordine!

6 strategia – La paura di fallire come freno del cambiamento: sbaglia in fretta

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Uno dei freni del cambiamento è sicuramente la paura di commettere errori. Viviamo infatti in una società dove l’errore viene percepito come qualcosa di cui vergognarsi, un segno di inadeguatezza, fragilità e incompetenza. Negli Stati Uniti, invece, vige una mentalità molto diversa dalla nostra e non è un caso che uno dei modi di dire che si utilizza molto oltreoceano sia ‘fail fast’, ossia ‘sbaglia in fretta’: l’errore, a ben vedere, è il primo passo necessario per apprendere e imparare. Di più: l’errore è condizione essenziale per ogni grande successo. Dunque, se vuoi avere successo rapidamente, comincia subito a collezionare insuccessi.

7 strategia – La crisi come opportunità

crisi

Nella visione comune, la crisi sembra essere qualcosa di disastroso e inevitabile, davanti alla quale siamo destinati a soffrire inermi. Qualcosa, insomma, di molto negativo. In realtà, la parola rimanda etimologicamente al concetto di “scelta/valutazione/riflessione” e può dunque suggerire anche una sfumatura positiva, in quanto ci comunica che è necessario ripensarsi e reinventarsi perché così non è più sostenibile andare avanti. Essa, insomma, diviene presupposto necessario per un miglioramento e un progresso altrimenti impossibile. Pensiamo ad esempio alla “crisi di coppia”, che permette di rinegoziare delle regole tra i partner per trovare un nuovo accordo più funzionale. Allora la prossima volta che ti trovi davanti a una situazione di crisi, prova a chiederti: «A quali opportunità apre la porta questo periodo di cambiamento? Quali opportunità non riesco a vedere?».

8 strategia – Un obiettivo formulato correttamente promuove il cambiamento

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Fondamentale per promuovere un cambiamento desiderato è avere in mente un obiettivo. Questo è abbastanza intuitivo. Tuttavia, ci sono alcune regole che occorre tenere presenti per formulare un obiettivo efficace. Ne ho selezionate 3 imprescindibili, vediamole con un esempio: ammettiamo di voler perdere qualche kg di troppo prima delle vacanze estive. Come formulare correttamente l’obiettivo?

1) l’obiettivo deve essere formulato in maniera precisa e deve essere misurabile. Per quanto riguarda la precisione, l’obiettivo ‘voglio fare una dieta’ non è ben formulato in quanto troppo vago: il nostro cervello ha bisogno di informazioni precise per poter mettere in moto quei meccanismi che ci portano a raggiungere un risultato. Meglio specificare: ‘Voglio arrivare a pesare xx (peso desiderato)’. Questo obiettivo è ben formulato anche perchè misurabile, cioè tale da permettere alla persona di capire in termini quantitativi se è stato raggiunto o quanto manca al suo raggiungimento.

2) l’obiettivo deve essere espresso in termini positivi. Questo punto è fondamentale. La formulazione ‘NON voglio più mangiare schifezze’ è altamente controproducente. Il nostro cervello, infatti, non riconosce le negazioni. Se dico ‘non devo pensare ad un elefante rosa’, quello che farò sarà attivare lo schema semantico ‘elefante’, poi processerò l’attributo ‘rosa’, dopodiché mi dovrò dire che non ci devo pensare. Insomma, per non pensarci, ho dovuto pensarci. In maniera analoga il pensiero ‘non mangiare schifezze’ equivale ad una attivazione continua del pensiero ‘mangiare’ e ‘schifezze’. Come prima, meglio dire ‘voglio mangiare sano’ oppure, ancora meglio, ‘voglio arrivare a pesare xx kg’

3) l’obiettivo deve essere sotto il controllo individuale, niente deve dipendere da fattori esterni che non è possibile controllare in prima persona. Obiettivi che implicano il cambiamento di altre persone sono destinati a fallire in quanto non è possibile controllare la volontà di un’altra persona ma solo la propria. Esulando dall’esempio del peso ed entrando in ambito lavorativo, l’obiettivo ‘voglio che il mio capo smetta di rispondermi male’ non e’ formulato efficacemente. E’ necessario in questo caso riformularlo concentrandosi sulla parte che è sotto la diretta responsabilità della persona, ad esempio ‘voglio imparare ad essere meno permaloso con il mio capo’.

9 strategia – Fissare una scadenza temporale accelera il processo di cambiamento

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Un altro aspetto fondamentale per realizzare un obiettivo e promuovere così un cambiamento desiderato è darsi una scadenza temporale. A questo proposito, ci viene in aiuto la cosiddetta Legge di Parkison, descritta da Cyril Northcote Parkinson negli anni ’60, e secondo cui “il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo disponibile; più è il tempo e più il lavoro sembra importante e impegnativo”. Ciò significa, in altre parole, che “più tempo si ha a disposizione, più se ne spreca”. Un esempio pratico? Vi è mai capitato di apprendere che la scadenza per un lavoro che avevate praticamente finito era stata posticipata, ma avete comunque lavorato fino alla sera precedente? La buona notizia è che la legge funziona anche al contrario: quando il tempo scarseggia, si lavora con maggiore efficacia e il processo di cambiamento subisce un’accelerazione spontanea. Quando ricevete incarico o fissate obiettivo, la strategia più funzionale consiste dunque nel porsi una scadenza che sia commisurata al carico del lavoro (niente scadenze impossibili!), ma sufficientemente limitata nel tempo.

10 strategia – Una modesta trasgressione fa bene alla psiche

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La maggior parte delle persone è spesso esageratamente spaventata dalla parola “trasgressione”. Tendiamo a percepire la trasgressione come qualcosa di rischioso, pericolosamente anti-convenzionale e irrispettoso. Al contrario, concedersi ogni tanto di “colorare fuori dai contorni” e agire saltuariamente in modi che abitualmente definiremmo “sconsiderati” può rivelarsi una buona cosa per la nostra psiche. Certamente le trasgressioni devono essere modeste, in linea con i nostri principi e non devono creare danni rilevanti: tingervi i capelli di un colore inusuale anche se qualcuno vi guarderà male, imbucarvi con nonchalance ad una festa privata o intrattenervi per strada a parlare con uno sconosciuto sono alcuni esempi di piccole trasgressioni salutari. Evadere temporaneamente dalla nostra routine può farci assaggiare un nuovo stile di vita, migliorare l’umore, donarci una sensazione di libertà, riattivare il nostro flusso creativo e produrre fantastici ricordi.