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Un viaggio alla scoperta delle emozioni

Un viaggio alla scoperta delle emozioni: la differenza tra quelle primarie e secondarie.

Le emozioni primarie sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali. Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Costantemente proviamo tante emozioni, una vasta gamma, che varia da quelle positive a quelle negative. Cos’è un’emozione?

Le emozioni sono quelle reazioni spontanee che abbiamo dinanzi e situazioni in cui siamo particolarmente coinvolti, e che comportano oltre che un “sentire”, anche un cambiamento a livello fisiologico, ed una serie di rappresentazioni e di pensieri connessi.

Ekman nel 2008 decise di stilare una lista di emozioni divise in primarie e secondarie.

Le emozioni primarie o di base sono:

1. rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l’aggressività;

2. paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;

3. tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto;

4. gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;

5. sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;

6. disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e disdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;

7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.

Queste sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali.

Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Esse sono:

allegria, sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo;

invidia, stato emozionale in cui un soggetto sente un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede;

vergogna, reazione emotiva che si prova in conseguenza alla trasgressione di regole sociali;

ansia, reazione emotiva dovuta al prefigurarsi di un pericolo ipotetico, futuro e distante;

rassegnazione, disposizione d’animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sfortuna;

gelosia, stato emotivo che deriva dalla paura di perdere qualcosa che appartiene già al soggetto;

speranza, tendenza a ritenere che fenomeni o eventi siano gestibili e controllabili e quindi indirizzabili verso esiti sperati come migliori;

perdono, sostituzione delle emozioni negative che seguono un’offesa percepita (es. rabbia, paura) con delle emozioni positive (es. empatia, compassione);

offesa, danno morale che si arreca a una persona con atti o con parole;

nostalgia, stato di malessere causato da un acuto desiderio di un luogo lontano, di una cosa o di una persona assente o perduta, di una situazione finita che si vorrebbe rivivere;

rimorso, stato di pena o turbamento psicologico sperimentato da chi ritiene di aver tenuto comportamenti o azioni contrari al proprio codice morale;

delusione, stato d’animo di tristezza provocato dalla constatazione che le aspettative, le speranze coltivate non hanno riscontro nella realtà.

Quindi, le seconde sono delle emozioni più complesse e hanno bisogno di

più elementi esterni o pensieri eterogenei per essere attivate.

Le nostre emozioni sono un segnale, servono per vivere e sopravvivere.

Le emozioni non sono né buone né cattive, né positive, né negative, ma sono utili. Dipende dall’uso che ne facciamo e da quanto esse diventano pervasive.

La paura ci segnala che qualcosa, che può metterci in pericolo, si è verificato; ci dà l’allerta, ci spinge a concentrarci maggiormente su ciò che stiamo facendo e ci attiva a mettere in campo le risorse per ovviare alla situazione potenzialmente pericolosa. La rabbia ci segnala che qualcosa o qualcuno sta ledendo noi stessi, che qualcuno sta calpestando i nostri diritti: anche questa emozione, come le altre quindi, ci dà un messaggio.

Le emozioni si possono distinguere in piacevoli (felicità, soddisfazione, gioia) e spiacevoli (paura, tristezza, rabbia, preoccupazione..) ed il vero problema consiste nel loro controllo. Se provo rabbia, ma so gestirla, evitando che mi invada, che diventi pervasiva di me e di tutti i contesti di vita, allora la rabbia non è negativa, ma mi può essere utile, se la uso in modo costruttivo, magari per mettere dei limiti, o per riuscire a dire ciò che non mi va.

Conosciamo davvero le nostre emozioni?

Domandiamoci: sappiamo distinguere in noi uno stato di frustrazione dalla rabbia? Sappiamo distinguere la rabbia e la tristezza? Sappiamo quindi dare effettivamente un nome alle nostre emozioni?

Prima di far ciò occorre che ce le lasciamo sentire queste emozioni! Senza soffocarle.

Entrare in contatto con esse. Non per tutti è cosa semplice, ma ci si può provare, da soli o con l’aiuto di qualcuno.

Siamo consapevoli delle situazioni nelle quali siamo più propensi a provare rabbia o paura o dolore oppure gioia?

Questo aspetto di conoscenza e di consapevolezza di noi stessi ci aiuta a prevedere in futuro le nostre reazioni emotive, evitando di sentirci in balia degli eventi e di noi stessi.

Il primo passo verso la corretta gestione delle nostre emozioni è dare spazio al nostro “dialogo interno”.

E’ sufficiente ritagliarsi un quarto d’ora a fine giornata da dedicare a noi stessi per riflettere su ciò che abbiamo vissuto. Cosa abbiamo provato? Perché? Come abbiamo reagito? Potrebbe essere interessante fare una piccola lista quotidiana delle emozioni che abbiamo provato, arricchendola via via.

Il secondo passo da fare per giungere ad avere una gestione consapevole dei nostri stati emotivi è sfatare la convinzione erronea che le emozioni ci piovano dal cielo, o che gli altri e le situazioni ci facciano provare determinate emozioni.

Nessuno ha così potere di condizionarci.

Gli altri non hanno il potere di farci arrabbiare, così come non hanno il dono di farci sentire felici. Siamo noi che ci sentiamo arrabbiati oppure che proviamo gioia.

Ad una stessa situazione, persone diverse potranno associare pensieri e valutazioni diverse: sarà questo diverso modo di vedere le cose che farà sorgere in loro un sentire che sarà esso stesso diverso tra l’una e l’altra, e comporterà poi, di conseguenze, reazioni comportamentali diverse.

Vediamo bene come i nostri pensieri, sulle cose, sugli altri e su noi stessi influenzano le nostre emozioni, e di conseguenze possiamo usare l’immenso potere della nostra mente per poter controllare e rendere più tollerabile il livello di alcune nostre emozioni, specie quelle spiacevoli.

Un passo importante è quindi allenarci a sostituire i pensieri negativi con altri positivi, ad esempio:

Pensieri Negativi

Pensieri Positivi

Sono un disastro Se mi sforzo avrò successo
Non ce la facccio Preoccuparsi non facilita le cose
Tutto andrà storto Non è poi così terribile
Non riesco a controllare questa situazione Forse non la conosco a fondo
Sono finito Cosa mi preoccupa?

Ogni situazione che viviamo viene commentata interiormente. Le emozioni sono influenzate dalle considerazioni che facciamo sugli eventi.   

I pensieri sono una forma di comportamento non direttamente osservabile, in quanto interiore, ma pur sempre modificabile. Abbiamo acquisito il nostro modo di pensare tramite l’esperienza ed è quindi appreso, non innato. Cambiare modo di pensare è come cambiare certe abitudini, ovviamente non sono da cambiare tutti i nostri modi di pensare, ma solo quelli che ci portano ad avere con frequenza emozioni intense e spiacevoli.

La rabbia: come reagire in modo efficace

La rabbia è una emozione primitiva, fondamentale con una specifica origine funzionale, essa può essere osservata sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse dell’uomo.

Insieme alla gioia e al dolore, la rabbia è una tra le emozioni più precoci.

Si usano moltissimi termini linguistici per riferirsi a questa reazione emotiva: collera, esasperazione, furore ed ira per rappresentare lo stato emotivo intenso della rabbia; altri per esprimere la stessa emozione ma di intensità minore, come: irritazione, fastidio, impazienza.

Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell’attivare una emozione di rabbia sembra cioè essere la volontà che si attribuisce all’altro di ferire e l’eventuale possibilità di evitare l’evento o situazione frustrante.

Ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare l’appagamento.

La cultura e le regole sociali a volte impediscono di dirigere la manifestazione e l’azione direttamente verso l’agente che scatena la rabbia, spesso si assiste ad una inibizione dell’azione di aggressione e addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l’oggetto frustrante.

Quando la rabbia non viene rivolta verso l’oggetto che provoca la frustrazione, potrebbe essere spostata verso un oggetto diverso oppure diretta verso se stessi, trasformandosi in autolesionismo ed auto aggressione.

Per quanto possano essere forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione facciale, ben riconoscibile in tutte le culture studiate. L’aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, rappresentano le modificazioni sintomatiche del viso che meglio esprimono l’emozione della rabbia. Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all’immobilità.

Le sensazioni soggettive più frequenti possono essere: la paura di perdere il controllo, l’irrigidimento della muscolatura, l’irrequietezza ed il calore. La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso. L’organismo si prepara all’azione, all’attacco e all’aggressione. Le variazioni psicofisiologiche sono quelle tipiche di una forte attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, ossia: accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell’irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione. Gli studi sugli effetti dell’inibizione delle manifestazioni aggressive sembrano indicare che chi non esprime in alcun modo i propri sentimenti di rabbia tende a viverli per un tempo più lungo.

Le modificazioni psicofisiologiche sono funzionali alla rimozione dell’oggetto frustrante. La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell’organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali.

La rimozione dell’ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l’induzione della paura e la conseguente fuga sia mediante un violento attacco.

 

 

I motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano la frustrazione di attività che erano connesse con l’immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo della rabbia sembra rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato.

L’arrabbiarsi, motivando chiaramente le motivazioni dello scontento, sembra infatti essere una procedura per ottenere un utile cambiamento.

I social network, ci propinano una immensa quantità di cose per cui vale la pena di arrabbiarsi, e ci spingono subdolamente a pensare che reagire con una battuta pepata o cliccare ripetutamente mi piace sui commenti degli altri, sia di una qualche utilità; essere arrabbiati tende a sostituire l’azione: questa è un’esperienza emotiva che crea assuefazione e ci illude che stiamo facendo qualcosa, mentre in realtà non è altro che un diversivo.

Quando arrabbiarsi non porta mai a nulla, alla lunga subentra lo scoraggiamento.

Ci adattiamo al peggio: “Se cerchiamo di mantenere quel livello febbrile di angoscia, paura e indignazione, il nostro cervello, per proteggerci, abbassa semplicemente il volume della rabbia e si adatta”. Siamo indotti a pensare che l’unico modo per opporci alla “normalizzazione” di cose terrificanti sia rimanere costantemente infuriati. Se fremiamo dalla rabbia – ci dice la logica – non rischiamo di diventare acquiescenti.

Il guaio, secondo Curzer, è che anche le emozioni si normalizzano (a causa dell’ormai noto “adattamento edonico”, per cui le cose nuove ed entusiasmanti a lungo andare ci sembrano banali, e certe situazioni terrificanti prima o poi non ci fanno più soffrire). Perciò non è egoistico, anzi forse è proprio nostro dovere, ogni tanto prendere le distanze dall’orrore e continuare la nostra vita, specialmente nei suoi aspetti più piacevoli. Chiamiamolo “prenderci cura di noi stessi”, se vi piace questa brutta espressione, ma è anche un modo per evitare che le nostre emozioni si appiattiscano.

È strano pensare che “angoscia, paura e indignazione” possano creare assuefazione: di solito riserviamo questo concetto a esperienze che, almeno all’inizio, sono piacevoli. Ma come hanno sempre sostenuto i buddisti, l’avversione e il desiderio sono due facce della stessa medaglia: sia che moriamo dalla voglia di qualcosa o che la detestiamo per qualche motivo, si tratta sempre di un’ossessione.

Se vogliamo lanciare una campagna contro qualcuno o qualcosa, saremo molto più efficaci se riusciamo a mantenere un certo distacco invece di lasciarci trascinare in un futile turbine di rabbia, che va unicamente a vantaggio dei nostri avversari. È come rafforzare un muscolo. Potremmo chiamarlo addestramento alla resistenza.

Fame emotiva e fame psicologica

A pig eating a sandwich --- Image by © Artisticco/ImageZoo/Corbis
A pig eating a sandwich — Image by © Artisticco/ImageZoo/Corbis

Nella nostra pancia è presente un cervello vero e proprio che sebbene contenga meno neuroni di quello nella testa, decide il nostro umore e rielabora le emozioni e i ricordi.

E’ sede della maggior parte del sistema immunitario ed è il luogo dove viene prodotta l’energia che usiamo. Quindi quello che accade nella pancia è fondamentale e decide il nostro rapporto col cibo.

Gli psicoterapeuti sanno bene come le emozioni e i traumi si riflettano nel corpo e il nostro linguaggio comune ce lo ricorda in continuazione: sei verde dalla rabbia, sei rosso dalla vergogna, mi è rimasto sullo stomaco, ho le gambe molli, sei una testa vuota, hai un cuore di pietra, l’ho presa di petto, ecc.

Quasi tutte le comunicazioni sono “bottom-up” cioè dall’intestino al sistema nervoso centrale e riguardano la trasmissione di informazioni generate nell’apparato digerente, ma c’è una quota minore comunque rilevante, di comunicazioni “top-down”. Forti sensazioni, eventi traumatici, stress emotivi elaborati nel sistema nervoso centrale possono causare disturbi nel funzionamento gastro-intestinale come crampi addominali, coliti, stipsi, diarrea, nausea, vomito.

STATO EMOTIVO E RIFLESSO NELL’APPARATO DIGERENTE

Alcune ricerche hanno messo in luce che le persone depresse hanno un ritmo dei processi digestivi rallentato e tendono alla stitichezza, mentre le persone ansiose presentano un transito accelerato del cibo, in particolare nel colon.

Altre ricerche hanno evidenziato che specifiche emozioni hanno un effetto importante sullo stomaco: per esempio la paura riduce la dilatazione dello stomaco e induce una sazietà precoce.

Lo stress può causare diarrea, nausea o vomito. Infatti lo stress è un sistema innato finalizzato a salvarci la vita: per l’uomo delle caverne è stato senz’altro funzionale liberarsi l’intestino nelle situazioni di pericolo poiché ciò alleggerisce il corpo favorendo la fuga. Tuttavia nella società moderna, se la condizione di stress è cronica, anche queste reazioni viscerali si cronicizzano.

IL CIBO CERCA DI COLMARE UN VUOTO

Sembrerebbe cosa semplice da fare “mangiare quando si ha fame”, ma capita a tutti, di non mangiare solo per soddisfare la sensazione di fame.

Mangiare dovrebbe prendere inizio da una sensazione fisica, ma molto spesso parte da un’emozione. Se stai mangiando mentre stai provando noia, stress, fatica, tensione, rabbia, solitudine, ansia o depressione, ricorda che sei dentro alla fame nervosa per riempire un vuoto.

La fame corporea non arriva così all’improvviso: è la fame nervosa quella che ti prende di sorpresa. E’ la fame nervosa quella che ti fa aver bisogno di essere immediatamente sazio. La fame corporea può aspettare.”

Il cibo viene consumato anche se non più richiesto dal nostro corpo già sazio, a volte può aiutare a creare situazioni di scambi relazionali e momenti di intimità, questo va benissimo; fame_coppiaSpesso però possiamo vedere che ci rivolgiamo al cibo per alleviare lo stress o per far fronte ad emozioni spiacevoli, o più in generale, difficili da gestire.

L’insoddisfazione, la frustrazione, la noia, un senso di solitudine possono spingere a mangiare, a trovare una soddisfazione orale quindi, o a colmare un “vuoto” per evitare di sentirlo fino in fondo, oppure per evitare la fatica di andarci a cercare ciò che realmente ci serve.

NELLA SOCIETA’ MODERNA L’ALLATTAMENTO E’ L’UNICO MOMENTO DI INTIMITA’ CON LA MADRE

allattamento

E’ spiegata chiaramente la connessione tra quello che accade nei primi mesi di vita e la disfunzionale relazione col cibo che si avrà negli anni futuri: Durante le poppate il piccolo ritrova in parte la fusione con il corpo materno e sperimenta nuovamente la totalità che esisteva prima della nascita.

Nella nostra frenetica vita moderna, però, quello è spesso anche l’unico momento d’intimità concesso alla madre e al bambino. Gli orari di lavoro, la gestione della casa, l’accudimento di altri fratellini e un certo tipo di pedagogia distolgono l’attenzione della mamma, impedendole quella dedizione totale di cui ogni nuovo nato ha bisogno per superare positivamente il trauma della nascita.

Le mamme umane, per assolvere le tante richieste della società, non riescono a dedicare ai figli tempo totalizzante e appartenenza reciproca, sono costrette a delegare a nonni, baby sitter e asili nido. L’allattamento, perciò, diventa un momento preziosissimo per il bambino che, almeno in quello spazio di tempo, può rivivere l’unità originaria, sperimentando la sensazione di esclusività e di potere che deriva dal sentirsi contemporaneamente se stessi e il mondo, in un unico Tutto inscindibile.

IL CIBO PRENDE SUBITO IL POSTO DELLE CAREZZE E DEGLI ABBRACCI

“Proprio le caratteristiche che rendono l’allattamento un momento così speciale, finiscono per trasformarlo nella premessa della dipendenza che, in seguito, caratterizzerà l’alimentazione.

Infatti, è in quei momenti che il cibo diventa lo strumento privilegiato per ricevere amore.

Nella cultura umana il contatto fisico (a meno che non sia erotizzato) è bandito dalle relazioni, ma la necessità di condividere l’affettività trova nell’alimentazione uno spazio sostitutivo, lecito e incentivato culturalmente.

Durante l’allattamento, periodo in cui la mente non ha ancora sviluppato una propria capacità critica, in seguito alla mancanza di fisicità e continuità nel rapporto tra mamma e bambino, s’imprime nelle percezioni la sensazione che mangiare soddisfi il bisogno d’amore, e il cibo prende il posto delle carezze e degli abbracci di cui tutti i piccoli hanno bisogno per sopravvivere.”

Sebbene lo stimolo della fame emotiva può essere piuttosto forte, come per la fame “vera” fisiologica, ci sono degli elementi di differenza. La fame emotiva sopraggiunge improvvisamente. Si presenta col bisogno urgente ed irrefrenabile di soddisfarla; la fame fisiologica al contrario viene in modo più graduale.

Nella fame emotiva, in genere, si desiderano alimenti specifici che danno una immediata gratificazione al gusto, e si ha voglia di mangiare solo quelli e nient’altro potrebbe soddisfare quel tipo di fame. Quando invece si è realmente affamati, tutto può andare bene, tra cui cibi sani.

Nella fame fisiologica lo stimolo cessa quando ci si sente sazi, mentre nella fame emotiva la sazietà non impedisce di desiderare dell’altro cibo gratificante.

La fame emotiva sembra non albergare nello stomaco, ma la si avverte come un desiderio che non si riesce a togliere dalla testa.

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CONCLUSIONE

Prima di pensare a quale sia la dieta più giusta ricorda che la mente ha una forza enorme sul corpo: anche il cibo più sano potrà produrre tossine e creare disturbi fisici se non digerito correttamente, e una corretta digestione può avvenire solo se la pancia è alleggerita da tutto quello stress dovuto ai traumi passati e ad un ritmo accelerato di vita.

Lasciamo andare tutto il peso emotivo del passato che ci portiamo dietro. Permettiamoci di lasciarlo andare. Stare nella natura, camminare a piedi nudi, giocare con gli animali, divertirsi con i bambini, meditare, respirare, fare yoga e attività fisica, ridere cantare e ballare sono tutte cose che aiutano tantissimo in questo: tutte attività che quando siamo proiettati nel futuro trascuriamo completamente.

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Inside out – Dentro e fuori

Sono andata a vedere questo film perché molti miei pazienti me lo citavano. È stato interessante vedere come a seconda dei propri vissuti, ogni persona dava al film un significato diverso e veniva colpito da un’emozione specifica.

emozioni

Con i miei pazienti ho utilizzato il film come strumento per far emergere contenuti emotivi non facilmente esplorabili, attraverso la distanza di sicurezza che l’utilizzo del linguaggio comune del film ci ha spontaneamente offerto.

Per caso mi sono imbattuta in un interessante articolo di un mio collega che riguarda il film in oggetto.

ricordo neve

Immaginate, per un momento, di essere in un parco di una piccola cittadina, in autunno, seduti in una panchina mentre osservate con piacere ed interesse l’interazione tra una mamma e un bambino piccolo, di 10 mesi circa. Stanno giocando distesi su di un prato pieno di foglie appena cadute giù da qualche albero. Il bambino ha in mano un pupazzetto di stoffa e lo avvicina al viso della madre, il pupazzetto gli sfugge di mano e la mamma decide di non raccoglierlo, allora il bambino si allunga per prenderlo, ma non ci arriva subito, si forza allungando al massimo le braccia e le dita. Non riuscendoci si spinge in avanti con tutto il corpo per coprire la breve distanza che lo separa dal giocattolo. In quel momento la madre dice “uuuuh! uuuuh!” in un crescendo dello sforzo vocale e respiratorio che va di pari passo con l’accelerazione dello sforzo fisico del bambino. Questa interazione è quella che lo psicoanalista svizzero Daniel Stern ha definito “sintonizzazione degli affetti”. La madre non tenta di imitare lo sforzo del bambino che prova a prendere il pupazzo ma si sintonizza con il suo sforzo e dà voce a quel vissuto. Questo tipo di interazione è esattamente quello che avviene in un lavoro psicoterapeutico. Prima ancora di capire il problema della persona, di interpretare, di aiutare, sostenere e via dicendo, il terapeuta prova a sintonizzarsi con i vissuti interni della persona che chiede aiuto, con le sue emozioni, dandogli voce, letteralmente tirandole fuori.

pupazzo

Spesso noi proviamo delle emozioni e non riusciamo a riconoscerle pienamente o perché particolarmente intense o, al contrario, perché troppo deboli, in questi casi abbiamo bisogno di una persona che ci aiuti a comprendere, insieme, cosa stiamo vivendo.

Inside out racconta il mondo interno di una bambina di 11 anni che si trova nella difficile situazione di dover spostarsi con la propria famiglia in un’altra città, molto distante dai luoghi in cui è nata e cresciuta. Nel cartone viene descritta, in modo molto efficace e veritiero, come vive Riley dal punto di vista emotivo questa situazione di disagio. Molti hanno sostenuto, a ragione, che questo cartone è l’elogio della tristezza, nel senso che è proprio grazie alla tristezza che alla fine Riley riesce ad affrontare e superare il momento di crisi.

A mio avviso però il cartone è anche l’elogio della relazione, Riley riesce ad affrontare la crisi perché si ricorda che in un momento di grande difficoltà dell’infanzia, relativo ad un fallimento sportivo, i suoi genitori erano sintonizzati affettivamente, attraverso l’abbraccio e la consolazione, con lei. E questo le apre anche il ricordo successivo dell’abbraccio dei suoi amici.

amica

Nella terapia, avviene qualcosa di molto simile. Il terapeuta si sintonizza con il disagio della persona, con le sue emozioni, assorbendole e restituendole attenuate, più morbide, delicate. La mente del terapeuta è aperta verso l’altro non solo attraverso le parole – e in generale attraverso gli aspetti cognitivi della loro comunicazione – ma, prima e soprattutto, verso ciò che passa a livello emotivo, in un dialogo silente che assomiglia molto alla relazione della mamma con il bambino che ho descritto all’inizio. Questo processo lentamente si sposta poi su di un piano più razionale, cognitivo, fino a diventare consapevolezza e quindi conoscenza di sé, dei propri disagi attuali e della propria storia personale. Ogni incontro terapeutico, in genere, dovrebbe muoversi attraverso questa sequenza, prima entrare in contatto con i vissuti emotivi e poi spostarsi, lentamente, verso il livello cognitivo, di maggiore consapevolezza.

abbraccio

La psicologia che sta dietro il cartone Inside Out ci dice non solo che le emozioni sono importanti e non, come si credeva un tempo, da tenere sotto controllo, pericolosi agenti di disturbo per il pensiero razionale, ma che noi siamo esseri relazionali, entriamo in contatto con l’altro fin dal concepimento, ci connettiamo, per utilizzare un termine moderno, e grazie a queste relazioni possiamo permetterci di esplorare il nostro mondo interno, le nostre fantasie, la nostra storia e immaginare e progettare il nostro futuro.

Resilienza: rialzarsi, più forti di prima.

giallo

La resilienza è la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo.

“ciò che non lo uccide, lo rende più forte” (Friedrich Nietzsche)

Resilienza nella storia

Fin dalle epoche più remote, gli esseri umani si sono distinti per la capacità di sopravvivere a disastri naturali, guerre, e a ogni sorta di carestia o malattia. Ciò è stato possibile perchè l’uomo è “programmato” per resistere alle sventure, superarle, e convivere quotidianamente con lo stress, al punto che si potrebbe dire che l’abilità di combattere e rialzarsi più forti di prima è la regola nel mondo umano.

storia

La necessità di combattere ha la sua ragion d’essere nell’inevitabilità delle sconfitte, delle delusioni e dei conflitti quotidiani, fino a quegli sconvolgimenti esistenziali, come una violenza o la perdita di una persona cara, che, spezzando un equilibrio preesistente, pongono colui che li ha subiti di fronte a una serie di interrogativi: Perché proprio a me? Che senso ha quanto mi è accaduto?

Domande da cui non è possibile sfuggire: solo cercando una risposta chiarificatrice, un senso, seppur a volte mai definitivamente compiuto, è possibile infatti ridefinire la propria sofferenza, la quale, al di là del dolore gratuito, può essere vista come un valore aggiunto, e fonte di maggiore sensibilità verso le bellezze dell’esistenza, nonchè per le sofferenze altrui.

Se è vero che certe ferite non si rimargineranno mai completamente, qualunque trauma, se non vissuto passivamente come punizione o negazione della felicità, può rappresentare, nel suo accadere repentino e imprevedibile, un’occasione di realizzazione superiore, al pari della condizione del cigno che si è sviluppato a partire dal brutto anatroccolo della nota favola di Andersen (Cyrulnik, 2002).

Le difficoltà quindi come opportunità, come sfida, che mobilita le proprie risorse, sia interne che esterne, una sfida dalla quale non ci si può esimere, in nome del raggiungimento di un equilibrio più funzionale.

Affrontare le inevitabili calamità della vita mette in moto un’abilità nota come resilienza, termine ripreso dall’ambito ingegneristico per indicare la capacità di un materiale di resistere a un urto improvviso senza spezzarsi. La sua azione può essere paragonata a quella del nostro sistema immunitario chiamato a proteggerci dalle aggressioni esterne.

Definizione di Resilienza

La resilienza è in altri termini la capacità di autoripararsi dopo un danno, di far fronte, resistere, ma anche costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante situazioni difficili che fanno pensare a un esito negativo.

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Essere resilienti non significa infatti solo sapersi opporre alle pressioni dell’ambiente, ma implica una dinamica positiva, una capacità di andare avanti, nonostante le crisi, e permette la costruzione, anzi la ricostruzione, di un percorso di vita. Si tratta di un dono inestimabile, che permette di superare le difficoltà, ma che non rende invincibili, e non è neppure presente sempre e comunque: possono infatti verificarsi momenti in cui le situazioni sono troppo pesanti da sopportare, generando un’instabilità più o meno duratura e pervasiva. Non esistono i Superman, e non si è dei supereroi per il solo fatto di essere stati resilienti in passato, anche se è indubbio che la forza delle battaglie superate predispone l’individuo a lottare con maggior consapevolezza (dei rischi assunti e della probabilità di riuscita).

Gli individui resilienti hanno, insomma, trovato in se stessi, nelle relazioni umane, e nei contesti di vita, quegli elementi di forza per superare le avversità, definiti fattori di protezione contrapposti ai fattori di rischio, che invece diminuiscono la capacità di sopportare il dolore.

Fattori di rischio per la Resilienza

Tra i fattori di rischio che espongono a una maggiore vulnerabilità agli eventi stressanti, diminuendo la resilienza, secondo Werner e Smith (1982) troviamo i fattori emozionali (abuso, bassa autostima, scarso controllo emozionale), interpersonali (rifiuto dei pari, isolamento, chiusura), familiari (bassa classe sociale, conflitti, scarso legame con i genitori, disturbi nella comunicazione), di sviluppo (ritardo mentale, disabilità nella lettura, deficit attentivi, incompetenza sociale).

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Fattori protettivi per la Resilienza

Tra i fattori protettivi, invece, gli autori ne individuano di individuali e familiari. Tra i primi, l’essere primogenito, un buon temperamento, la sensibilità, l’autonomia, unita alla competenza sociale e comunicativa, l’autocontrollo, e la consapevolezza e fiducia che le proprie conquiste dipendono dai propri sforzi (locus of control interno). A questi si aggiunge una risorsa di estrema importanza: il comportamenti seduttivo, che consente di essere benvoluti e di riconoscere e accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.

I fattori protettivi familiari comprendono l’elevata attenzione riservata al bambino nel primo anno di vita, la qualità delle relazioni tra genitori, il sostegno alla madre nell’accudimento del piccolo, la coerenza nelle regole, il supporto di parenti e vicini di casa, o comunque di figure di riferimento affettivo.

Esplorando i fattori protettivi, è possibile individuare cinque componenti che contribuiscono a sviluppare la resilienza (Cantoni, 2014).

I 5 componenti che sviluppano la Resilienza

1. L’Ottimismo. La disposizione a cogliere il lato buono delle cose, è un’importantissima caratteristica umana che promuove il benessere individuale e preserva dal disagio e dalla sofferenza fisica e psicologica. Chi è ottimista tende a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi (Seligman, 1996).

2. L’autostima si accoppia all’ottimismo. Avere una bassa considerazione di sé ed essere molto autocritici, infatti, conduce a una minore tolleranza delle critiche altrui, cui si associa una quota maggiore di dolore e amarezza, aumentando la possibilità di sviluppare sintomi depressivi.

3. La Robustezza psicologica (Hardiness). Essa è a sua volta scomponibile in tre sotto-componenti, il controllo (la convinzione di essere in grado di controllare l’ambiente circostante, mobilitando quelle risorse utili per affrontare le situazioni), l’impegno (con la chiara definizione di obiettivi significativi che facilita una visione positiva di ciò che si affronta) e la sfida, che include la visione dei cambiamenti come incentivi e opportunità di crescita piuttosto che come minaccia alle proprie sicurezze.

4. Le emozioni positive, ovvero il focalizzarsi su quello che si possiede invece che su ciò che ci manca.

5. Il supporto sociale, definito come l’informazione, proveniente da altri, di essere oggetto di amore e di cure, di essere stimati e apprezzati. E’ importante sottolineare come la presenza di persone disponibili all’ascolto sia efficace poichè mobilita il racconto delle proprie sventure. Raccontare è liberarsi dal peso della sofferenza, e l’accoglienza gentile e senza rifiuti o condanne da parte degli altri segnerà il passaggio da un racconto tutto interiore, penoso e solitario (che può sfociare in forme di comunicazione delirante) alla condivisione partecipata dell’accaduto.

In definitiva, ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità delle risorse personali e dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico. Parlare in termini di resilienza vuol dire modificare lo sguardo con cui si leggono i fenomeni e superare un processo di analisi lineare, di causa ed effetto, per cui non è più corretto ragionare dicendo per esempio: “E’ stato gravemente ferito, quindi è spacciato per tutta la vita!”

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Il profilo della Resilienza

Se volessimo tracciare un profilo della persona resiliente, questa dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche:

Sopporta i dolori senza lamentarsi e regge le difficoltà senza disperarsi;

Ha il coraggio di intraprendere con consapevolezza una via che sa essere tortuosa o, comunque, non la più semplice;

Ama la vita per quello che è nel presente, e coltiva una propria spiritualità e virtù che moderano i timori di morte;

Ricorda di essere esposta al pericolo in quanto mortale, e nel contempo affronta ciò che lo ostacola per cercare di superarlo con saggia audacia.

Piacere per forza rende finti

Chi si preoccupa sempre di piacere agli altri teme di venire abbandonato: atteggiamento controproducente

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Fanno tutto quello che gli si chiede, dicono quello che si spera che dicano, sono sempre d’accordo con chi hanno di fronte e, in ogni caso, mai apertamente in disaccordo. Sembra che a loro vada bene tutto, che possano sopportare ogni cosa e che addirittura gli piaccia farlo. Sono arrabbiati? Sorridono. Sono delusi? Si mostrano soddisfatti. Sono occupatissimi? Si rendono disponibili a ogni richiesta. Sono i “compiacenti”, cioè persone che vivono dominate dalla paura di scontentare chiunque abbiano davanti. E che, con questo modo di fare, portano le relazioni – amicali, sentimentali e lavorative – verso un inevitabile fallimento. Un fallimento di cui non si spiegano le ragioni e che fanno una gran fatica ad accettare, perché convinte che la strategia del “non deludere” sia la migliore per far andare bene le cose. Siamo in molti – quasi tutti a dire il vero – a desiderare di piacere agli altri, al punto da rischiare a volte di snaturare ciò che siamo.

Paura dell’abbandono

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Chi più chi meno, tutti abbiamo imparato fin da piccoli che all’occorrenza si può indossare la maschera di “colui che non delude” per avere dei vantaggi. Chi non riesce mai a togliersela però ha una tale paura di deludere e di venire abbandonato che tutta la sua vita viene condizionata. Forse il comportamento dei genitori, e poi le prime esperienze di incontro con il mondo esterno, lo hanno convinto che, se non si contraddicono gli altri, si viene accettati o, quantomeno, non si viene puniti: si ottiene la loro clemenza. Fin da quando era piccolo, quindi, egli cerca di affermarsi nella realtà tentando di “tenere buono” l’interlocutore, temendo le sue reazioni: potrebbe non amarlo più, non accettarlo, non volerlo, ma anche “distruggerlo” con brutte parole e musi lunghi.

Una strategia fallimentare

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Chi vive così sacrifica la qualità della propria vita in cambio della sopravvivenza emotiva. Eppure può fare qualcosa di concreto per uscire da questa penosa situazione. In fondo si tratta di togliere una maschera che, a ben vedere, non ha mai dato risultati positivi. I partner, dopo averlo sfruttato ben bene, lo hanno accusato di falsità, di doppiogiochismo e – cosa paradossale, in apparenza, per chi si è adattato così tanto – di egoismo; gli amici gli si sono rivoltati contro o si sono sentiti raggirati; i colleghi lo vessano dopo averlo spremuto come un limone. Invece di parlare di ingratitudine degli altri occorre focalizzarsi sul fatto che, alla fine, tutti scoprono, o comunque percepiscono, la sua finzione. E non gliela perdonano. Quando oggi sente dire: “Potevi dirlo che non eri d’accordo!”, ebbene è vero: poteva dirlo. O, meglio: doveva.

Avrebbe dovuto affermare se stesso e sopportare la probabile reazione negativa dell’altro, visto che, alla fine, essa è comunque arrivata, ed è ben peggiore di quella che poteva essere all’inizio.

La finzione della bontà

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Chi fa di tutto per compiacere gli altri è convinto di essere una persona buona, molto buona, visto che si adatta ai loro bisogni e ciò gli fa pensare che, con tutta questa bontà, gli altri avranno pietà di lui e riconosceranno il suo “grande cuore”. Ma, a parte il fatto che gli altri non sanno niente dei sacrifici che ha fatto, egli, in realtà, non ha mai avuto il coraggio di immettere nelle relazioni la propria verità, le proprie vere idee, i propri desideri ed esigenze. E quindi non ha mai dato loro delle reali chance di riuscita. È su questo punto che occorre riflettere con molta attenzione. Se per motivi legati alla propria storia personale non si fornisce all’altro una conoscenza reale di sé, tutto sarà inquinato fin dall’inizio e ciò che si temeva – il “disastro” e l’abbandono – si realizzerà puntualmente. Se invece ci si farà conoscere per come si è, quel che accadrà sarà davvero quel che deve accadere. E la vita, per quanto impegnativa, potrà essere reale e appagante.

Smetti di adattarti alle scarpe strette o le dovrai portare sempre.

Riconosci le tue esigenze

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Più lo compiaci, più l’altro si abitua a vederti così: disponibile, malleabile e senza idee ed esigenze particolari. E gli va benissimo, quindi non accetterà cambiamenti. È a te però che non va bene. Perciò impegnati, fin dall’inizio di un rapporto, a dire ciò che pensi e a esprimere ciò di cui hai voglia o bisogno. Non accadrà niente di terribile.

Conosci meglio te stesso

A volte, a forza di adattarsi alle esigenze degli altri, si finisce per non sapere più quali sono le proprie. Orientati di più su di te, sulla tua interiorità. Dai più ascolto alle tue emozioni, ai tuoi pensieri. Essere più in contatto con essi ti aiuterà ad avere la risposta pronta per esprimerti al momento opportuno.

Inutile rinfacciare

Se ti adatti a tutto, anche senza che ti venga richiesto, lanci il messaggio che per te non c’è problema. Perciò è assurdo poi, quando ti senti disconosciuto, fare un elenco dei sacrifici fatti e degli sforzi profusi. Ciò farà apparire la tua bontà come interessata e, quindi, manipolatoria. Piuttosto seleziona meglio a cosa adattarti e a che cosa no, così da non sentirti in credito con tutti.

Facilitare il cambiamento: 10 strategie

1 strategia – Questioni di consapevolezza: il cambiamento è una costante della vita

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La prima cosa da conoscere e da considerare è che il cambiamento è una costante della vita. Fa parte del DNA di ogni uomo e della storia del mondo. Pensiamo alle cellule del nostro corpo, che nascono e muoiono ciclicamente per permetterci di sopravvivere; ai nostri bisogni e obiettivi, che si modificano in continuazione lungo le diverse fasi del ciclo di vita, dall’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta, alla vecchiaia; all’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, ai prodotti della terra prima acerbi poi maturi; alle rivoluzioni e alle grandi scoperte e invenzioni, che hanno punteggiato la storia e hanno permesso all’uomo di evolversi, aprirsi nuovi orizzonti, aumentare il benessere e la qualità della vita. Tutto intorno e dentro di noi muta e si evolve, inesorabilmente.

2 strategia – Sviluppa la flessibilità: “l’acqua vince su tutto perché si adatta a tutto”

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Se il cambiamento è presenza costante della vita, occorre acquisire confidenza e imparare ad adattarvisi, visto che esso si verificherà comunque. Alcune volte il cambiamento sarà imposto e nulla potremo fare per resistervi: in questi casi dovremo essere capaci di cavalcarlo e restare flessibili e morbidi. In altri casi, invece, dovremo essere noi per primi a prendere l’iniziativa e a «fare accadere» il cambiamento o almeno a metterci nella posizione per favorirlo, perché è solo abitando situazioni differenti che possiamo aprire porte su nuovi orizzonti di crescita. Insomma, chi sa come cambiare e quando adattarsi al cambiamento ha numerosi vantaggi che non possiede chi fatica ad adeguarsi alle situazioni che la vita ci obbliga ad affrontare. In questo senso, può essere utile tenere a mente le parole di Lao Tse, filosofo cinese del V secolo; “l’acqua vince su tutto perché si adatta a tutto”.

3 strategia – Esci dalla zona di comfort… e prova a cambiare

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C’è da dire che molte persone sono terribilmente spaventate dal cambiamento. La maggior parte di noi infatti ha la tendenza a rimanere entro i confini della cosiddetta “zona di comfort”, ossia tutte quelle routine e quei meccanismi conosciuti e ormai familiari su cui esercitiamo un controllo. Tutto ciò che è al di fuori di questa zona, e che dunque implica la messa in discussione di abitudine consolidate, viene avvertito come pericoloso perché ignoto, forse rischioso o forse no, ma comunque ancora tutto da sperimentare. Eppure, per evolvere, realizzare i nostri bisogni più autentici e creare valore in quello che facciamo occorre proprio accettare di uscire dalla nostra zona di comfort. Ciò può essere fatto a cominciare dalle piccole cose, inserendo piccole deviazioni nelle nostre routine: cambiando il percorso mentre andiamo al lavoro o assaggiando nuovi cibi rispetto a quelli che mangiamo abitualmente. Un altro fatto importante è che quando avviene un cambiamento nella nostra vita, ci affrettiamo a etichettare la nuova situazione come ‘buona’ o ‘cattiva’, ‘una fortuna’ o ‘una sfortuna’. Ad esempio, potremmo giudicare un cambiamento sul lavoro – come l’arrivo di un nuovo superiore al posto di quello precedente – come qualcosa di negativo, timorosi delle modifiche che ciò potrà portare alla nostra condizione. Così facendo, anticipiamo negativamente gli eventi e sperimentiamo emozioni di ansia e apprensione quando, a ben vedere, non è possibile conoscere a priori le conseguenze di un cambiamento. Anzi, quante volte abbiamo giudicato come catastrofico qualcosa che poi si è rivelato un’occasione di crescita?

4 strategia – Per cambiare gli altri, cambia te stesso

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Lungo la strada che porta al cambiamento, possiamo imbatterci in “alibi”, cioè scuse che inventiamo per rimanere ancorati alle nostre abitudini, magari scomode e disfunzionali, ma rassicuranti perché conosciute. Tra i vari alibi, il più frequente è sicuramente quello secondo cui sono gli altri a doversi modificare al nostro posto. Ad esempio, in una coppia che litiga spesso per lo stesso motivo, poniamo la gestione della casa, uno dei due potrebbe continuare a lamentarsi dell’atteggiamento del partner, aspettandosi che sia l’altro a modificarsi. A ben vedere, però, il modo più veloce ed efficace per modificare i comportamenti degli altri è lavorare su se stessi; questo perché in ogni sistema, se si modifica un elemento interno, anche gli altri ne vengono influenzati in quanto irrimediabilmente interconnessi. Ecco perché, nell’esempio precedente, è fondamentale non intestardirsi per modificare chi ci è vicino, ma provare noi per primi a modificare alcuni nostri atteggiamenti e vedere cosa succede.

5 strategia – Come cambiare.. in 5 minuti

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Quanto è ripida la strada verso il cambiamento? Quando cerchiamo di percorrerla, ci pare sempre lunga e difficile, e questo può condurci ad inventare scuse e giustificazioni per procrastinare il da farsi. Ad esempio, se il cambiamento che vogliamo generare riguarda il pulire a fondo la casa, possiamo farci scoraggiare dalla mole di lavoro che ci aspetta: lavare i piatti, mettere in ordine la scrivania, pulire il bagno e tutte le altre stanze. Sembra tutto così lungo e difficoltoso che possiamo rischiare di abbandonare l’intento. Cosa fare allora in questi casi? Inizio con svelarti una cosa, e cioè che, all’interno dei processi di cambiamento, la cosa più difficile è compiere il primo passo. Dunque ti segnalo una strategia chiamata “minimizzare il cambiamento”. In cosa consiste? Nell’esempio della pulizia della casa, posso pensare di impostare un timer da cucina e di darmi da fare per la durata di 5 minuti, al termine dei quali potrò anche smettere. Ora è più semplice alzarsi e compiere il primo passo! Se inizio a pulire la scrivania, mi rendo conto che non è poi così traumatico: ritrovo vecchi documenti dimenticati, lo spazio è pulito e ordinato e questo mi gratifica. Quando suonerà la sveglia sarò più facilitato a continuare a pulire anche il resto della casa, ma, se dovesse andare male e decidessi di fermarmi con le pulizie, al peggio avrò la scrivania in ordine!

6 strategia – La paura di fallire come freno del cambiamento: sbaglia in fretta

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Uno dei freni del cambiamento è sicuramente la paura di commettere errori. Viviamo infatti in una società dove l’errore viene percepito come qualcosa di cui vergognarsi, un segno di inadeguatezza, fragilità e incompetenza. Negli Stati Uniti, invece, vige una mentalità molto diversa dalla nostra e non è un caso che uno dei modi di dire che si utilizza molto oltreoceano sia ‘fail fast’, ossia ‘sbaglia in fretta’: l’errore, a ben vedere, è il primo passo necessario per apprendere e imparare. Di più: l’errore è condizione essenziale per ogni grande successo. Dunque, se vuoi avere successo rapidamente, comincia subito a collezionare insuccessi.

7 strategia – La crisi come opportunità

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Nella visione comune, la crisi sembra essere qualcosa di disastroso e inevitabile, davanti alla quale siamo destinati a soffrire inermi. Qualcosa, insomma, di molto negativo. In realtà, la parola rimanda etimologicamente al concetto di “scelta/valutazione/riflessione” e può dunque suggerire anche una sfumatura positiva, in quanto ci comunica che è necessario ripensarsi e reinventarsi perché così non è più sostenibile andare avanti. Essa, insomma, diviene presupposto necessario per un miglioramento e un progresso altrimenti impossibile. Pensiamo ad esempio alla “crisi di coppia”, che permette di rinegoziare delle regole tra i partner per trovare un nuovo accordo più funzionale. Allora la prossima volta che ti trovi davanti a una situazione di crisi, prova a chiederti: «A quali opportunità apre la porta questo periodo di cambiamento? Quali opportunità non riesco a vedere?».

8 strategia – Un obiettivo formulato correttamente promuove il cambiamento

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Fondamentale per promuovere un cambiamento desiderato è avere in mente un obiettivo. Questo è abbastanza intuitivo. Tuttavia, ci sono alcune regole che occorre tenere presenti per formulare un obiettivo efficace. Ne ho selezionate 3 imprescindibili, vediamole con un esempio: ammettiamo di voler perdere qualche kg di troppo prima delle vacanze estive. Come formulare correttamente l’obiettivo?

1) l’obiettivo deve essere formulato in maniera precisa e deve essere misurabile. Per quanto riguarda la precisione, l’obiettivo ‘voglio fare una dieta’ non è ben formulato in quanto troppo vago: il nostro cervello ha bisogno di informazioni precise per poter mettere in moto quei meccanismi che ci portano a raggiungere un risultato. Meglio specificare: ‘Voglio arrivare a pesare xx (peso desiderato)’. Questo obiettivo è ben formulato anche perchè misurabile, cioè tale da permettere alla persona di capire in termini quantitativi se è stato raggiunto o quanto manca al suo raggiungimento.

2) l’obiettivo deve essere espresso in termini positivi. Questo punto è fondamentale. La formulazione ‘NON voglio più mangiare schifezze’ è altamente controproducente. Il nostro cervello, infatti, non riconosce le negazioni. Se dico ‘non devo pensare ad un elefante rosa’, quello che farò sarà attivare lo schema semantico ‘elefante’, poi processerò l’attributo ‘rosa’, dopodiché mi dovrò dire che non ci devo pensare. Insomma, per non pensarci, ho dovuto pensarci. In maniera analoga il pensiero ‘non mangiare schifezze’ equivale ad una attivazione continua del pensiero ‘mangiare’ e ‘schifezze’. Come prima, meglio dire ‘voglio mangiare sano’ oppure, ancora meglio, ‘voglio arrivare a pesare xx kg’

3) l’obiettivo deve essere sotto il controllo individuale, niente deve dipendere da fattori esterni che non è possibile controllare in prima persona. Obiettivi che implicano il cambiamento di altre persone sono destinati a fallire in quanto non è possibile controllare la volontà di un’altra persona ma solo la propria. Esulando dall’esempio del peso ed entrando in ambito lavorativo, l’obiettivo ‘voglio che il mio capo smetta di rispondermi male’ non e’ formulato efficacemente. E’ necessario in questo caso riformularlo concentrandosi sulla parte che è sotto la diretta responsabilità della persona, ad esempio ‘voglio imparare ad essere meno permaloso con il mio capo’.

9 strategia – Fissare una scadenza temporale accelera il processo di cambiamento

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Un altro aspetto fondamentale per realizzare un obiettivo e promuovere così un cambiamento desiderato è darsi una scadenza temporale. A questo proposito, ci viene in aiuto la cosiddetta Legge di Parkison, descritta da Cyril Northcote Parkinson negli anni ’60, e secondo cui “il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo disponibile; più è il tempo e più il lavoro sembra importante e impegnativo”. Ciò significa, in altre parole, che “più tempo si ha a disposizione, più se ne spreca”. Un esempio pratico? Vi è mai capitato di apprendere che la scadenza per un lavoro che avevate praticamente finito era stata posticipata, ma avete comunque lavorato fino alla sera precedente? La buona notizia è che la legge funziona anche al contrario: quando il tempo scarseggia, si lavora con maggiore efficacia e il processo di cambiamento subisce un’accelerazione spontanea. Quando ricevete incarico o fissate obiettivo, la strategia più funzionale consiste dunque nel porsi una scadenza che sia commisurata al carico del lavoro (niente scadenze impossibili!), ma sufficientemente limitata nel tempo.

10 strategia – Una modesta trasgressione fa bene alla psiche

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La maggior parte delle persone è spesso esageratamente spaventata dalla parola “trasgressione”. Tendiamo a percepire la trasgressione come qualcosa di rischioso, pericolosamente anti-convenzionale e irrispettoso. Al contrario, concedersi ogni tanto di “colorare fuori dai contorni” e agire saltuariamente in modi che abitualmente definiremmo “sconsiderati” può rivelarsi una buona cosa per la nostra psiche. Certamente le trasgressioni devono essere modeste, in linea con i nostri principi e non devono creare danni rilevanti: tingervi i capelli di un colore inusuale anche se qualcuno vi guarderà male, imbucarvi con nonchalance ad una festa privata o intrattenervi per strada a parlare con uno sconosciuto sono alcuni esempi di piccole trasgressioni salutari. Evadere temporaneamente dalla nostra routine può farci assaggiare un nuovo stile di vita, migliorare l’umore, donarci una sensazione di libertà, riattivare il nostro flusso creativo e produrre fantastici ricordi.

Attacchi di Panico

Gli Attacchi di Panico sono una condizione psicologica che ha visto una rapida diffusione negli ultimi decenni. Una loro caratteristica essenziale, è costituita da un preciso periodo di intensa paura o disagio: difatti, l’attacco di panico ha un inizio improvviso, raggiunge rapidamente l’apice (di solito in dieci minuti) ed è spesso accompagnato da un senso di pericolo o di catastrofe imminente. Gli attacchi di panico, inoltre, sono caratterizzati da una serie di sintomi psichici e fisici come l’ansia, la paura di perdere il controllo oppure quella di morire, le palpitazioni, la difficoltà di respirazione o “nodo alla gola“, la nausea, i disturbi addominali, le sensazioni di formicolio o di torpore.

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In base alle differenti relazioni tra l’esordio dell’attacco di panico e la presenza o assenza di fattori scatenanti situazionali, esistono tre tipologie caratteristiche di attacchi di panico: inaspettati, causati dalla situazione e sensibili alla situazione. Gli attacchi di panico inaspettati sono quelli in cui la persona non associa l’esordio dell’attacco con un fattore scatenante situazionale specifico. Negli attacchi di panico causati dalla situazione, invece, la crisi si manifesta quasi invariabilmente durante l’esposizione o nell’attesa dello specifico stimolo o fattore scatenante situazionale. Negli attacchi di panicosensibili alla situazione, infine, gli attacchi hanno più probabilità di manifestarsi in seguito all’esposizione allo stimolo o al fattore scatenate situazionale, ma non sono invariabilmente associati con lo stimolo e non si manifestano necessariamente subito dopo l’esposizione.

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Alcune persone con disturbo da attacchi di panico, inoltre, soffrono anche di agorafobia, vale a dire la paura di rimanere intrappolati in un luogo o in una situazione dai quali la fuga può risultare difficile o molto imbarazzante oppure potrebbe non essere disponibile un aiuto nel caso in cui la persona venga colpito da una crisi improvvisa. Questo aspetto rappresenta certamente uno degli elementi più invalidanti degli attacchi di panico, poiché interferisce in maniera significativa con il regolare funzionamento sociale, lavorativo e familiare. Difatti, per eludere la paura si attuano condotte di evitamento di luoghi affollati o chiusi, oppure non si viaggia da soli o non si utilizzano mezzi di trasporto. Alcune persone, inoltre, possiedono un ideale raggio d’azione che delimita un confine al di là del quale non possono allontanarsi, tanto che talvolta diventa difficile anche l’uscire di casa. Infine, per quanto riguarda la diffusione degli attacchi di panico in base al genere, seppure le donne sono in numero maggiore, si è assistita negli ultimi anni ad una crescente incidenza anche tra la popolazione maschile.

QuadroAngoscia

Da un punto di vista psicologico, le cause degli attacchi di panico si possono ricercare tra le dinamiche fra la coscienza e i contenuti più profondi. Un atteggiamento sbagliato da parte della coscienza può suscitare una reazione che determina stati di confusione e panico. Su questa medesima impostazione si collocano le parole dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, secondo il quale i problemi sorgono soltanto se agiscono esclusivamente in profondità e non li prendiamo nelle nostre mani in modo da dare loro una forma e una direzione precise: “Se eludiamo questo compito, essi ci trascinano a rimorchio e noi diventiamo le loro vittime: li si può paragonare a una slitta lanciata a grande velocità giù per una china coperta di neve, senza nessuno alla guida. Dobbiamo piantarci saldamente in testa alla slitta, con la briglia in mano, e non sedere dietro o, peggio, cercare di non salirci affatto, perché così facendo si finisce per essere presi dal panico“. Lo scopo di un lavoro psicologico, allora, è quello di riuscire a dare maggiore consapevolezza e chiarezza a tali contenuti, e di integrarli con equilibrio ed armonia all’interno della personalità globale.

Estate e tempo libero: come goderne

In estate i ritmi di vita rallentano. E’ proprio durante la stagione estiva che i problemi psicologici possono esplodere.

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L’arrivo del caldo per alcuni coincide con l’interruzione delle occupazioni abituali, ripetitive (a volte noiose), ma che per queste loro caratteristiche hanno un effetto rassicurante. Quando d’estate, queste vengono a mancare, il loro vuoto può essere colmato dal riemergere di “fantasmi” alla base di manifestazioni di ansia e depressione.

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Il cambiamento dei ritmi di vita, una obbligata permanenza a casa, le partenze di amici e di familiari, la chiusura dei negozi di riferimento e i centri sociali obbligano la maggior parte degli anziani all’isolamento e solitudine. La casa può diventare un luogo di prigionia e nido per pensieri negativi che portano a disturbi di ansia e depressione.

Le vacanze vengono attese e desiderate perché si ha voglia di staccare la mente, di rilassarsi, di fare delle cose che da tempo non si ha avuto la possibilità realizzare.

Quando le ferie arrivano c’è chi le vive dedicandosi alle attività che preferisce: sport, lettura, viaggi, uscite fino a tarda notte, ozio. C’è invece chi riesce a rilassarsi per i primi due giorni e poi, ad un tratto si annoia o non riesce a godere del tempo libero, anzi non sa proprio come gestirlo. Qualcuno addirittura sta male, è insofferente, inizia ad agitarsi, a soffrire di insonnia, ansia e disturbi simili.

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La possibilità di dedicare più tempo a se stessi può essere un’arma a doppio taglio. Mentre nel periodo lavorativo si è troppo presi dalla routine quotidiana ed è molto facile “nascondere” ed evitare i problemi, durante le ferie, se non si è abbastanza impegnati le difficoltà possono venire a galla. Si può star male perché non si sa come impiegare il tempo libero. Durante l’anno spesso ci si concentra solo ed esclusivamente sul lavoro mettendolo al centro delle proprie giornate, e non si riesce a far nulla di piacevole.

Alcuni suggerimenti per evitare i disagi delle persone che passeranno il periodo estivo a casa:

  • Ogni mattina, quando vi alzate, preparatevi e vestitevi prendendovi cura di voi stessi;

  • Uscite la mattina presto o la sera quando il caldo non è opprimente;

  • Non abbandonate le consuetudini come comprare il giornale, bere un caffè fuori casa, fare delle passeggiate, anche se i vostri luoghi abituali sono chiusi;

  • Programmate il vostro tempo con occupazioni per voi gratificanti, che magari durante l’inverno non avete avuto la possibilità di svolgere;

  • Non poltrite passivamente di fronte al televisore;

  • Tenete i contatti con chi come voi è rimasto a casa ed organizzate degli incontri con loro;

  • Scoprite quali sono le attività di intrattenimento organizzate nel luogo in cui abitate. Queste potranno essere anche occasione per fare delle nuove conoscenze;

  • Tenete presente che tra qualche settimana tutto tornerà alla solita routine e forse rimpiangerete un po’ la tranquillità di questi giorni.

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Dedicare tempo a se stessi significa anche fermarsi a pensare e decidere cosa sia meglio per se. Bisognerebbe andare a recuperare i desideri di far qualcosa che non si è potuto fare e approfittare per farlo ora.

Si Potrebbero riprendere i contatti con persone che non si frequentano da un po’, fare un viaggio, dedicarsi a delle attività di gruppo. Insomma, inserirsi nuovamente in una rete sociale e gustarne tutti i piaceri che essa offre. Prendere l’abitudine di concedersi esperienze piacevoli, e concedersi degli spazi per se stessi.

Elaborazione del lutto: alcuni suggerimenti

lutto     Alcuni suggerimenti

1) Evitare di trascurarsi e lasciarsi andare, è importante prendersi cura di se stessi durante tutto il periodo di prostrazione.

2) Costruire una rete di sostegno è fondamentale per non sentirsi soli. Cercare di essere sostenuti e incoraggiati dalle persone più o meno importanti.

3) Vivere il dolore per mettere la morte nella dimensione corretta, che è il passato.

4) Creare dei tuoi rituali di separazione.

5) Concedersi qualche piacere al giorno.

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Quando è opportuno richiedere un aiuto psicologico?
Tutte le persone prima o poi si devono rapportare con l’esperienza della perdita di qualcosa di importante. Non solo la morte di persone a noi care, che è il prototipo di perdita, ma anche di un rapporto d’amore, d’amicizia, di un oggetto con particolare valore. Lo stesso crescere vuol dire un po’ anche morire, abbandonare una parte di se stessi per approdare a una nuova, cercando di integrare il meglio possibile gli aspetti vecchi con quelli nuovi.Sono queste delle perdite doppie: oltre alle persone care ci vediamo costretti a rinunciare a una parte di noi stessi, ci sentiamo più soli, diversi, smarriti.

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Uno studio del 2004 di Bonanno, Wortman e Nesse dimostra chiaramente quanto siano diverse le forme di adattamento all’evento del lutto, suggerendo la necessità di abbandonare l’idea ingenua ma diffusa che la sua elaborazione proceda e si risolva in maniera lineare, passo dopo passo, per approdare invece a una concezione nella quale siano differenti i percorsi di negoziazione della perdita.

Alcuni soggetti sono dotati di buone strategie di adattamento. In questo caso l’elaborazione procede in maniera lineare.

Altre persone sono pieni di rimorsi per quello che hanno o non hanno fatto insieme alla persona che è venuta a mancare, e un sostegno psicologico può fornire loro un aiuto nell’elaborazione del lutto.

In alcuni casi, era presente una sofferenza ancora prima del lutto,   soffrivano di depressione marcata e la perdita ha poi aggravato lo stato delle cose.

In questo caso più che elaborare il lutto è consigliata una psicoterapia per curare la depressione.

Come ha spiegato Neimeyer nel suo libro “lesson of loss: A guide to coping”, la morte può sovvertire le nostre regole e organizzazioni di vita.

L’esperienza della perdita ci rimanda a una verità più grande, a un buco tra la nostra storia e l’esperienza, un divario tra noi e gli altri che cerchiamo di rendere più comprensibile. Ed è quando non ci sono parole per spiegare l’esperienza che il divario diventa maggiore.